VALIGIA BLU: LA MANOVRA FINANZIARIA

di Mattia Marasti

Era chiaro a chiunque, all’indomani del voto, che il governo Meloni era atteso da un compito arduo, far fronte all’emergenza economica in cui versa non solo il nostro paese, ma l’intero Occidente. Pur con tutte le attenuanti del caso, è comunque difficile non giudicare negativamente le prime mosse prese dal governo. Le perplessità non sono però dovute alla situazione attuale – le misure messe in campo per la crisi energetica sono spesso necessarie – quanto all’idea di paese che traspare dai provvedimenti identitari della destra. Una sorta di antipasto di quello che verrà quando la situazione non sarà emergenziale. 

Da dove partivamo 

Ovviamente, come già detto, la situazione non è delle più semplici. L’inflazione, segnala l’ISTAT, a ottobre ha sfiorato il 12% su base annua, erodendo i salari già bassi degli italiani e con conseguenze più drammatiche per famiglie e individui meno abbienti. Non solo: l’inflazione in Europa, a differenza degli Stati Uniti d’America dove gli interventi fiscali di Biden hanno contribuito in maniera sostanziale all’aumento dei prezzi, dipende maggiormente da fattori di offerta. A trainare la dinamica dell’inflazione nel 2022 sono infatti i beni energetici: secondo i dati Eurostat i beni energetici avrebbero avuto un rincaro del 40% nel corso dell’ultimo anno. In Italia si assiste a una dinamica simile. 

È necessario tuttavia un chiarimento: tradizionalmente non è ai governi che compete la dinamica dei prezzi.

È alla Banca Centrale Europea che tocca il compito, non particolarmente semplice, di deprimere domanda- quindi consumi e investimenti- per riportare la situazione economica all’equilibrio e pertanto cercare di porre un freno alla spirale inflazionistica. Anche se, proprio per quanto detto prima, non vi è consenso unanime in seno alla comunità accademica e tra i commentatori circa la strategia. Alcuni, ad esempio, sostengono che aumentando i tassi di interesse la Banca Centrale spingerà l’eurozona verso la recessione

Ciò non significa che i governi non abbiano alcun ruolo nella situazione corrente. Le misure intraprese dai governi, infatti, possono alleggerire il costo dell’inflazione per cittadini e imprese, ma devono essere in sinergia con gli obiettivi della Banca Centrale. Come riportato dal think tank Tortuga il rischio è che i sussidi per far fronte all’inflazione riducano gli effetti della stretta sui tassi. 

Per l’Italia, il Governo Draghi aveva già predisposto aiuti contro il carovita che si sono rivelati particolarmente efficaci, come dimostra l’Ufficio Parlamentare di Bilancio. Senza interventi, infatti, vi sarebbe stato per i ceti meno abbienti un aumento di oltre il 10%, ridotto all’1.3% grazie proprio a interventi su componenti tariffarie, bonus, rivalutazione pensioni. D’altronde l’impatto sarebbe stato molto più alto per le fasce più deboli: se l’aumento per il primo decile sarebbe stato del 10%, per l’ultimo appena sotto il 6%. 

E così ha fatto anche il governo di Giorgia Meloni che ha dedicato la maggior parte dei fondi della manovra (21 miliardi su 35) contro quest’emergenza- a cui va aggiunto anche il decreto aiuti quater. 

Le misure sono quindi un miglioramento, nei limiti imposti dalle risorse, di quelle prese dal governo Draghi: oltre a uno sconto sull’acquisto d’energia per le aziende sotto forma di credito d’imposta, il governo Meloni ha prorogato il bonus bollette innalzando inoltre la soglia ISEE a 15.000 euro e istituito una carta per gli acquisti volta a sostenere la domanda delle famiglie più deboli. 

Le perplessità rimangono

Le misure intraprese tanto dal governo Draghi quanto da quello Meloni per contrastare gli effetti del caro prezzi sono giuste e vanno sostenute, nonostante manchi il coraggio di un maggior prelievo sugli extra profitti delle aziende energetiche e l’intenzione di cambiamenti strutturali con accelerazione sulle fonti rinnovabili. Basti pensare alla questione trivellazioni gas italiano, un provvedimento inutile, perché le risorse non sono abbastanza per far scendere il prezzo del gas come ha già anche spiegato un documento del centro studi di Cassa Depositi e Prestiti, e dannoso – perché lega ancora di più le mani al nostro paese con il gas. Ma dal punto di vista più strettamente economico sono due le aree su cui il governo Meloni è intervenuto e che dimostrano, quando non il pressapochismo, la sua visione economica squisitamente di destra. 

1) Reddito di Cittadinanza 

Il provvedimento sicuramente più discusso riguarda la cancellazione del Reddito di Cittadinanza. In un primo momento il governo aveva ipotizzato una sua cancellazione già a partire dal 2023, ma viste le problematiche che ciò avrebbe comportato per i beneficiari, ha deciso di varare una sua riforma complessiva entro il 2024 mentre, per il 2023, si limiterà a ridurre l’assegno per gli occupabili a 8 mesi. Si tratta di un provvedimento motivato più da ragioni politiche che economiche.

La destra, grazie anche alla flebile difesa della misura da parte delle forze progressiste e al campo preparato dalle forze di centro come Italia Viva, non ha mai nascosto l’intenzione di cancellare la misura di contrasto alla povertà voluta dal Movimento 5 Stelle, tanto che le misure fiscali di Fratelli d’Italia sono state proprio giustificate come stimolo ad alzarsi dal divano. A questo va aggiunto anche la necessità di trovare risorse ingenti da mettere in campo per contrastare il caro bollette. 

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Le ragioni economiche, d’altronde, non esistono. Un sussidio universale contro la povertà è presente in tutti i paesi d’Europa e anzi: proprio in questi giorni in Germania si è arrivati a una quadra al Bundestag per la riforma del sussidio istituito dal piano Hartz. Con la riforma passata da Berlino il beneficiario del reddito non sarà più inserito nel primo posti di lavoro disponibile, ma in uno con contratto a tempo indeterminato individuato con i centri per l’impiego. 

Ovviamente il Reddito di Cittadinanza non è scevro da critiche, soprattutto per quel che riguarda l’aspetto delle politiche attive. Durante la campagna elettorale anche il Movimento 5 Stelle ha proposto una sua riforma seguendo le indicazioni della Commissione Saraceno, sensibilmente diverse rispetto alle posizioni sposate da Meloni e dal centro liberale. Pur non sapendo ancora cosa sostituirà il Reddito di Cittadinanza nelle intenzioni di Giorgia Meloni, non c’è dubbio che si andrà verso una misura da workfare, tutta indirizzata a occupare il prima possibile i beneficiari, in controtendenza rispetto a quanto succede in Germania.

Ed è qui che vi è da tenere conto di un secondo aspetto, all’apparenza distante ma quantomai indispensabile per comprendere come questa cancellazione del Reddito di Cittadinanza si inserisca in un contesto più ampio: il governo Meloni non ha mai manifestato intenzione di modificare le normative che regolano il mercato del lavoro per contrastare i contratti pirata e garantire buoni posti di lavoro.

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La cancellazione del Reddito senza un intervento per  contrastare precariato e generare buoni lavori permette quindi di dare una descrizione di più ampio respiro a quale paese ha in mente Meloni: un paese dove il tessuto imprenditoriale- dominato da piccole e medie imprese, a bassa produttività e prono all’evasione fiscale- può sostenersi grazie all’abbondanza di manodopera a basso costo e poco qualificata- sotto il ricatto dell’indigenza-permettendo quindi alle aziende di competere all’interno non su investimenti in nuove tecnologie o capitale umano ma su tutele e salari. Un paese, quindi, che accelera nella traiettoria discendente che segue ormai da decenni.

2) Tasse, Cuneo Fiscale e Salari

La seconda perplessità deriva dalla capacità del governo Meloni di intervenire sulla vera emergenza del paese: quella salariale. 

Anche qui è necessario fare un passo indietro, toccando il legame tra inflazione, salari e domanda. Negli anni ‘70, quando l’occidente visse un periodo di elevata inflazione, questa fu acuita dalla spirale prezzi salari. Le condizioni istituzionale del tempo- elevata presenza sindacale e salari indicizzati- provocarono un fenomeno estremamente pericoloso: per far fronte alla crescente inflazione, sindacati e governi spingevano per aumenti salariali che le aziende erano costrette a concedere, riducendo così i profitti e quindi aumentando i prezzi dei beni di consumo, esacerbando pertanto la dinamica dell’inflazione. Consci di questa situazione, il contesto istituzionale è cambiato e i salari non sono più legati all’inflazione- i più anziani ricorderanno il famoso referendum sulla scala mobile degli anni ‘80 e la sua abolizione negli anni ‘90. Non c’è quindi alcun segno di spirale prezzi salari. 

Si presenta oggi però un problema opposto- e più intuitivo: la perdita di potere d’acquisto da parte dei lavoratori. Proprio perché i salari non sono più legati all’inflazione, mentre il salario rimane fissato, i prezzi aumentano erodendo la quantità di beni che quei soldi possono acquistare. In Italia, dimostrano i dati, il calo dei salari reali- ovvero quelli misurati al netto dell’inflazione- sono in calo del 3.1% secondo l’OECD, peggio rispetto alla media. 

Diventa quindi urgente per il governo trovare un meccanismo per salvaguardare i salari. Per questo il governo Meloni ha confermato il taglio del cuneo fiscale di 2 punti percentuali sui redditi fino a 35 mila euro e ha inoltre predisposto un ulteriore taglio di un punto percentuale per quelli fino a 20 mila euro. 

Inoltre ha detassato i benefit aziendali e le mance. Se quest’ultime misure sono fumo negli occhi e avranno un impatto insignificante, merita un maggior approfondimento il taglio del cuneo fiscale- specificando che si tratta di un taglio a favore dei lavoratori. 

Ma attenzione: come facevano notare Tito Boeri e Roberto Perotti su La Repubblica chi percepisce la riduzione di una tassa non è necessariamente il soggetto che la paga, in questo caso il lavoratore. Chiariscono infatti i due economisti che con il tempo il 90% della riduzione delle tasse sul lavoro va a vantaggio del datore di lavoro. 

Dopo aver dedicato la stragrande maggioranza della manovra quindi al sostentamento del sistema produttivo, non si capisce perché per il reddito da lavoro debba andare, ancora una volta, a carico dello stato- perché questo è il taglio del cuneo fiscale. Poiché l’inflazione colpisce, appunto, i più poveri si poteva pensare a un salario minimo legale, ma- e qua casca un po’ l’asino- il governo non ha alcuna intenzione di migliorare la condizione salariale del paese. 

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Il taglio del cuneo fiscale dimostra infatti che il governo Meloni agirà riducendo il peso dello Stato senza interferire con il sistema imprenditoriale italiano. Eppure l’emergenza salariale è un problema strutturale che dipende proprio da un sistema affetto da un esagerato dualismo, con piccole e medie imprese a bassa produttività a cui è permesso- come già detto prima-di competere su tutele e salari. 

Non solo: il governo Meloni sembra sostenere quel sistema di capitalismo estrattivo in cui versa il nostro paese, con provvedimenti come l’estensione della flat tax sugli autonomi- il cosiddetto regime forfettario- da 65 mila e 80 mila euro. Si tratta di provvedimento privo di senso- se non dannoso-, che va a favorire una categoria che già oggi è affetta da un’elevata incidenza di evasione fiscale e di cui non si capisce la logica economica: di fatto è solo un provvedimento che obbedisce a logiche di propaganda. 

Come l’ennesimo condono: una tregua fiscale, secondo Meloni, ma che nei fatti è l’ennesimo condono dopo quello del governo Conte I e Draghi, che cancella le cartelle con importo inferiore ai mille euro e per tutti gli altri una maggiorazione unica del 3% con possibilità di rateizzazione. 

Un pessimo inizio

La manovra del governo Meloni, nonostante sia ancora in fasce e non si conoscano ancora nemmeno le coperture precise, delinea già l’azione del suo governo: la mobilitazione dello Stato a favore della rendita e di un sistema produttivo viziato.  Non ci sono provvedimenti di contrasto all’evasione fiscale, a favore di un cambiamento strutturale della nostra economia, di inserimento del lavoro. La necessità di far fronte all’emergenza economica lascia poco spazio per provvedimenti sistemici come l’introduzione di una flat tax, ma oltre alle già misere finanze pubbliche vi sono provvedimenti che già oggi rappresentano un esborso non necessario per il nostro paese- come appunto estensione flat tax. Di certo il vero progetto della destra su temi economici è rinviato, ma le prospettive non sono certo delle migliori.I

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