La casa automobilistica Tesla ha di recente rilasciato un aggiornamento software installatosi sui suoi veicoli. I proprietari di quest’auto – che già è all’avanguardia sotto molti punti di vista – si sono svegliati una mattina trovando una semplice ma sbalorditiva nuova voce nelle opzioni mostrate sul cruscotto: pilota automatico (cercare su youtube per credere). Al clamore per una novità lungamente annunciata, ma comunque inevitabilmente affascinante, è seguito il riaccendersi del dibattito sul futuro del lavoro in una società sempre più automatizzata. Verremo tutti rimpiazzati da software e macchinari? In quanto tempo, se avverrà, vedremo manifestarsi tutto ciò?
Ai più indefessi sostenitori di un’imminente rivoluzione tecnologica si oppone una visione moderata dei processi di automatizzazione che trova nel cosiddetto paradosso di Polanyi una delle sue argomentazioni più valide. Teorizzato dal filosofo e scienziato Michael Polanyi, il paradosso evidenzia come la conoscenza umana si estenda molto più in là di quanto esplicitamente comprensibile dalle persone stesse, ponendo un paletto tuttora insormontabile anche per la più avanzata intelligenza artificiale. Molte cose semplicemente le facciamo, senza pensarci e senza averne chiara la struttura logica causale.
L’informatizzazione ha portato alla sostituzione tra macchina e uomo in tutti quei compiti che, generalizzando, sono riconducibili a una logica di base fondata su procedure specifiche, azioni ripetibili e automatizzabili: pensiamo a lavori quali l’archivista, il ragioniere o l’operaio semplice. Solo negli Stati Uniti, tale categoria si è ridotta di quasi 20 punti percentuali in termini di peso relativo sul totale dell’occupazione tra il 1959 e il 2007 (figura 1).
Figura 1
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Fonte: Acemoglu D., Autor D.,“Skills, Tasks and Technologies: implications for employment and earnings”
Esistono tuttavia due categorie di compiti che la tecnologia non è stata ancora in grado di automatizzare e che danno prova concreta del paradosso di Polanyi. Stiamo parlando di quei processi che per l’appunto eseguiamo senza comprenderne i meccanismi fondanti. In primis, ci sono le nozioni astratte, come l’esercizio della leadership, della creatività, dell’intuizione, dell’empatia. La loro importanza è un fatto assodato e la flessibilità mentale richiesta per esercitarle non codificabile. La tecnologia viene in questi casi in aiuto del lavoratore, istituendo un rapporto di complementarietà e permettendogli di diventare più produttivo: basti pensare al supporto ormai essenziale dei computer come anche all’incredibile valore apportato dalla tecnologia in campo medico.
Lo stesso vale per altri compiti flessibili, mondani, ma non intellettualmente stimolanti, fondati però anch’essi sulle nozioni astratte sopraelencate, come quelli di assistenti di volo, guardie di sicurezza, colf e via dicendo.
Automatizzazione e lavoro
I processi di automatizzazione hanno portato a trend lavorativi simili sia negli Stati Uniti sia in Europa, dove la classe media ha visto diminuire le opportunità di lavoro proprio perché impiegata in quei lavori altamente codificabili dove lo sviluppo della matematica e della logica ha permesso di risalire in maniera induttiva alle componenti e cause dei diversi processi produttivi (il cosiddetto reverse engineering). Tra il 1993 e il 2006 in Europa l’occupazione per questa fascia di popolazione è diminuita in media dell’8 per cento (figura 2).
Figura 2
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Fonte: Acemoglu D., Autor D., “Skills, Tasks and Technologies: implications for employment and earnings”
Tuttavia, nozioni astratte come empatia e coordinazione si sono evolute nel corso di millenni e non esistono, al giorno d’oggi, strumenti in grado di riprodurne gli effetti. Basti pensare alla semplicità con cui viene passata l’aspirapolvere o svuotata la lavastoviglie, compito quasi insormontabile per una macchina.
Le prospettive future
La panoramica fin qui delineata ci permette da un lato di meglio comprendere gli sforzi di ingegneri e computer scientist per riuscire a superare il paradosso di Polanyi e portare così la tecnologia oltre l’ultima barriera ancora insormontabile: la capacità di apprendere autonomamente. Una strada già intrapresa in passato è quella del controllo ambientale. Nonostante il nome possa richiamare scenari da grande fratello, il concetto si basa sul rendere l’ambiente compatibile e funzionale alle nuove tecnologie, così come è stato fatto con la costruzione di strade asfaltate per l’utilizzo dell’automobile.
La vera sfida tuttavia sarà ben più complessa e andrà inevitabilmente affrontata puntando al cuore del problema. L’obiettivo è infatti programmare le macchine per far sì che inferiscano autonomamente regole e metodologie, che siano cioè in grado di imparare. Certo, siamo ancora lontani dall’ottenere risultati soddisfacenti, ma le sperimentazioni procedono in diversi centri di ricerca. Per esempio, vengono “mostrati” ai computer enormi database di immagini, programmati poi per creare associazioni statistiche sulla base di immagini standard precedentemente classificate.
Dall’altro lato, se è vero che i progressi della tecnologia appaiono sempre più eclatanti, i suoi limiti sono spesso dimenticati. A coloro che ritengono inevitabile una radicale rivoluzione tecnologica, diversi esperti del settore contrappongono un più graduale processo di sviluppo incrementale. Adottando questo punto di vista è possibile sbilanciarsi mostrando come, verosimilmente, fra cinquanta anni avremo ancora bisogno di elettricisti, insegnanti, architetti, avvocati, scienziati, atleti, cuochi, medici come anche di lavoratori in campi non ancora scoperti.
Si ignora come la tecnologia spesso completi le nostre abilità rendendoci più produttivi sul lavoro, senza necessariamente sostituirci. Il mondo di domani non ci è dato conoscerlo, come non ci è dato conoscere le professioni che verranno. In quest’ottica il vero problema non sarà quello della scarsità di mezzi o lavoro, ma piuttosto quello della distribuzione della ricchezza proveniente dalle macchine stesse.
Gabriele Borg
Laureato in Economia e Scienze Sociali presso l’universita’ Bocconi, attualmente svolge attività di ricerca presso la Fondazione De Benedetti.
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