Una sinistra post-ideologica di Michele Ciliberto

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Uno dei tratti più tipici della storia italiana è la mancanza di un partito in grado di raccogliere e di organizzare tutte le forze di ispirazione riformatrice. Specie la storia della sinistra storica è punteggiata di divisioni, lacerazioni, contrapposizioni che in alcuni momenti hanno assunto carattere addirittura tragico.
Non che siano mancati tentativi di unificare il fronte riformatore – penso, ad esempio, ai tentativi di un grande dirigente del movimento operaio italiano come Giorgio Amendola – ma in generale sono falliti: sulla esigenza dell’unità è prevalsa sempre la divisione, con la conseguenza che le forze riformatrici non sono mai andate alla guida del Paese, con poche eccezioni.

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Sarebbe interessante cercare di capire le ragioni di questa situazione e, certo, fra le altre, bisognerebbe far riferimento al rapporto tra le forze della sinistra riformatrice e lo Stato, sulle tendenze massimalistiche presenti nella loro storia, sulla incapacità di accogliere e far proprio un orizzonte limpidamente riformistico in grado di incidere effettivamente sui rapporti di forza reali nel nostro Paese. Naturalmente occorrerebbe, simultaneamente, fare una analisi altrettanto lucida delle posizioni – e delle ideologie – delle classi dirigenti italiane che in generale hanno scelto, per governare, la strada della forza e non quella del consenso. Nella storia nazionale italiana figure come quelle di Giolitti, De Gasperi o Aldo Moro costituiscono l’eccezione e non la regola – come confermano anche le loro vicende politiche e umane. Prima di essere trucidato dalle Brigate rosse, Moro era stato lungamente in minoranza nel suo partito, dove aveva subito «inutili» (il lemma è suo) prevaricazioni. Forse, per gettare luce su questa lunghissima storia, bisognerebbe concentrarsi in primo luogo su ragioni di tipo materiale, sui caratteri della borghesia italiana, sui suoi limiti strutturali. Ma non è questa la sede per una analisi di questo tipo. Basta ribadire il punto dal quale siamo partiti: l’assenza nella nostra storia di un partito in grado di raccogliere tutte le forze interessate al cambiamento come avviene in altri Paesi europei – un arco di forze necessariamente molto ampio, da quelle di ispirazione più marcatamente moderata a quelle che si rifanno al filone popolare e socialista.
In questo senso, l’orientamento di una parte di Sel a confluire nel Pd a me appare significativo. E non per il numero di quelli che stanno facendo questa scelta, ma perchè essa è sintomo di alcuni processi di fondo che stanno investendo la società italiana e che cominciano a rifrangersi anche a livello di sistema politico. Anzitutto si sta formando nel nostro Paese una sinistra di tipo post ideologico che favorisce la fine di vecchie divisioni e crea le basi di una confluenza delle forze riformatrici in un partito che si definisce sul piano strettamente programmatico, al di fuori quindi di opzioni ideologiche che presso di noi hanno avuto effetti solamente divisivi. In secondo luogo, c’è l’affermazione della dimensione europea come orizzonte imprescindibile, con la crisi e anche la fine di vecchie divisioni, rotture, contrapposizioni che hanno potuto avere senso nella cornice dello Stato-nazione ma perdono qualunque significato considerate dal punto di vista dell’Europa. Essa infatti spinge all’unità, non alla divisione. Infine – ed è il dato forse più importante – c’è la spinta che viene dal profondo della società italiana a superare le barriere delle vecchie storie e a incamminarsi per nuovi sentieri, liberi da pregiudizi di carattere ideologico sentiti ormai come un inutile residuo del passato. Se le consideriamo in prospettiva le ultime elezioni, e la vittoria del Pd, hanno un valore effettivamente periodizzante nella storia della Repubblica. Da molti punti di vista, una nuova storia può effettivamente cominciare .
Questo carica di molte responsabilità il Pd che si deve configurare come un moderno partito riformatore di carattere europeo, capace di attrarre nelle proprie fila tutti coloro che sono interessati a una profonda prospettiva di cambiamento del nostro Paese, a cominciare dalle sue classi dirigenti. Un partito plurale, di tipo federale, modernamente interclassista: cioè capace di trovare un punto di convergenza, e di equilibrio, fra gli interessi delle forze che esso sceglie di rappresentare. Forze di area moderata e forze di matrice popolare e socialista. Un partito che individua come propria «ideologia» le politiche riformatrici e le prospettive di cambiamento da mettere in campo per cambiare il Paese.
Certo, un partito di questo genere ha oggi bisogno di un leader, come si è visto anche alle ultime elezioni amministrative. E deve sapersi servire della Rete. Ma necessita anche di forme organizzative flessibili, ricche, articolate e diffuse sul territorio. Machiavelli dice nei Discorsi che il regno è superiore alla repubblica se la moltitudine è disorganizzata; ma se essa si organizza non c’è dubbio sulla superiorità della repubblica sul regno. È vero anche oggi: forse ci sono finalmente le condizioni per costruire quel partito riformatore che è sempre mancato in Italia e che potrebbe contribuire anche a una soluzione in termini bipolari della crisi italiana, aprendo una nuova epoca della nostra storia. I movimenti che si stanno aprendo nel sistema politico sono, forse, un primo indizio di trasformazioni più profonde che iniziano a venire alla luce.
l’Unità 22 giugno 2014

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