Discutere, partecipare, decidere: una comunità politica vive quando è capace di svolgere queste funzioni alla luce del sole, intorno a idee e progettualità, coinvolgendo persone in carne e ossa. La prova di queste settimane di discussione congressuale – faticosa come ogni esercizio di democrazia reale – ci dice che il Partito Democratico è una comunità politica vitale nonostante i ritornelli funebri che sentiamo ripetere intorno a noi da almeno un anno.
Ma quegli annunci di morte prematura – ripetuti spesso dagli stessi che avevano previsto che il governo Lega Cinque Stelle avrebbe impresso all’Italia una svolta di crescita, giustizia e rinnovamento – si sono infranti contro una realtà più testarda di qualunque auspicio. E’ la realtà del voto in Abruzzo e Sardegna, dove il PD si afferma come principale forza di opposizione e baricentro di alleanze ampie per l’alternativa allo sfascio gialloverde.
E’ la realtà di un impegno parlamentare che ogni giorno incalza sul merito un governo unito solo dalla presa sulle poltrone e incapace di decidere sui nodi fondamentali per il futuro del paese. Ma è anche la realtà di un partito che all’indomani di una durissima sconfitta ha saputo rimettersi in piedi con umiltà e determinazione: resistendo alla tentazione dell’abbandono e della disgregazione non solo per le capacità dei militanti o di questo o quel dirigente, ma perché esiste una larga parte di italiani che non si riconosce nel populismo grilloleghista e che pretende che siano difesi i valori della coesione sociale, della crescita e del lavoro, del pluralismo culturale e della tolleranza razziale, di uno Stato di diritto che alla legge del potente di turno oppone la forza delle istituzioni.
C’è chi sostiene che il Partito Democratico discuta troppo. E’ un vizio di cui andare orgogliosi, nell’epoca dei partiti-azienda dove gli ordini si prendono da padroni, eredi o “garanti” mai eletti da nessuno o dei partiti-falange dove chi mette in discussione il capo viene messo pubblicamente alla berlina.
La discussione congressuale è stata autentica, per chi volesse davvero riconoscere temi e spunti per il futuro e non pretendere invece un autodafé distruttivo. Inevitabile che il confronto sia stato anche sul nostro recente passato, perché l’esperienza di governo 2013-2018 è quella sulla quale il PD ha concretamente misurato la propria visione del paese nei suoi punti di forza e nei suoi limiti. E altrettanto inevitabile che le divisioni tra i tre candidati “finalisti” siano in gran parte emersi intorno alle diverse letture del fenomeno grilloleghista e alle strategie per parlare a quegli elettori, sullo sfondo di una speranza di unità per il PD come valore in sé da preservare in ogni possibile scenario futuro.
In sintesi: fino ad oggi una discussione che è stata prova di democrazia interna, capace di trasmettere al paese l’idea che la politica non sia solo linguaggio della forza o esibizione del corpo ma riflessione e confronto (e dunque conflitto); domenica con il voto alle primarie una prova di opposizione ai gialloverdi sulla quale costruire la nuova stagione della politica italiana.
Democratica > Primarie Pd > Una prova di democraziaAndrea Romano@andrearomano9 · 28 febbraio 2019
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