Dopo anni di studi e ricerche, di partecipazioni, più o meno combattute, alle varie giornate del ricordo che si sono susseguite dal 2004, ho maturato la convinzione che quella che poteva essere un’importante occasione culturale, si è trasformata in realtà in una mera occasione di propaganda politica. A fare la parte dei protagonisti, nei dibattiti, non sono infatti la ricerca o un positivo revisionismo costruito sulle fonti, ma lo scontro tra negazionisti, giustificazionisti, ricostruttori parziali degli eventi, che non può contribuire a edificare un clima positivo e a raggiungere l’obiettivo comune di una ricostruzione storica accettata. A questo, un paese civile dovrebbe tendere: al riesame degli eventi, all’identificazione delle basi comuni, delle motivazioni, delle problematiche, alla ricerca delle fonti. La scienza storiografica dovrebbe, di li, arrivare ad accertare e scrivere i fatti senza condizionamento politico alcuno, e la ricostruzione scientifica dovrebbe diventare base del sentire comune. Una cosa possibile, come è stata possibile in molti paesi democratici l’elaborazione di visioni autocritiche in merito a drammi nazionali. L’Italia, però, anche in questo si dimostra un paese particolare, strano, intriso di desiderio intimo di scontro, di clima perenne da guerra civile.
Partiamo da un presupposto: io non sono un negazionista e neanche un giustificazionista, anzi. Ma sono per la storia e non per la propaganda. Chi accredita la tesi delle foibe come operazione esclusiva di pulizia etnica fatta ai danni degli italiani dai “barbari” slavi, commette una falsificazione criminosa. Così come chi esclude che, nel risentimento dei nazionalisti slavi nei confronti degli italiani, ci fosse una forma di reazione alla durezza del fascismo di confine. Le due tesi opposte, che in realtà coesistono nella spiegazione degli eventi, sono state, nella loro unicità, i cavalli di battaglia di una storiografia politicizzata, estremistica. Spesso si dimentica di evidenziare la volontà, da parte del movimento di liberazione jugoslavo, di abbattere tutti i potenziali ostacoli alla propria presa di potere. Per spiegare la tormentata storia dei confini orientali quindi, non ci si può soffermare solo su una faccia della medaglia, occorre tenere in debito conto anche la seconda faccia.
Ma il problema della storia delle foibe è che è stata, fin dal principio, intrisa di politicizzazione. Una ben determinata parte politica, la destra italiana, ha contribuito a costruire con la legge 92 del 30 marzo 2004 a istituire la giornata del ricordo delle foibe e dell’esodo, operazione anche culturalmente interessante ma di cui si è impossessata la politica. Così, ogni anno, si registrano scontri, si registrano appelli, come se costruire una memoria condivisa potesse essere una missione da perseguire. Ma può esistere una memoria condivisa di una guerra, di uno scontro, di una violenza? Io non credo. La memoria dei vinti non può essere quella dei vincitori. Se la politica volesse fare un servizio al popolo italiano, dovrebbe piuttosto tendere a una ricostruzione storica accettabile, scientificamente e metodologicamente ineccepibile. Ma si tratta di un’azione più difficile, complessa, e che fa meno rumore. Chissà se ci arriveremo mai!
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