Il titolo di questo incontro non è del tutto soddisfacente. Prova a dire qualcosa, ma non lo dice in modo eloquente. E l’eloquenza è importante. Oggi la storia scrive in grigio.
E facciamo fatica a sollevarci sopra la palude che inghiotte i pensieri. Voi state pensando: l’incipit non si presenta incoraggiante. E infatti lo abbandoniamo subito e passiamo al merito della cosa.
Il tema è stato dichiarato estinto per decreto. Si tratta di capire se ha ancora ragioni di esistenza. Su questo interroghiamoci.
Stare da una parte, in un certo modo
Politica e cultura evoca un titolo classico: Bobbio, saggi Einaudi, 1955. Cinquant’anni fa. Cioè, secoli or sono. Scritti dal 1951 in poi. Ne prendo uno solo. La Società europea di cultura, prima Assemblea generale, Venezia, 1951: due appelli, uno agli intellettuali, uno ai politici. Tentativo generoso, ampiamente fallito, come capita spesso ai tentativi generosi, di mettere al riparo la cultura, e gli intellettuali, dal fuoco della guerra fredda, già in atto.
La guerra fredda è stata una guerra civile mondiale ideologica. Ho sempre pensato che il fatto di essere stata combattuta prevalentemente sul fronte ideologico sia stata una delle ragioni che hanno impedito la sua tra-sformazione in guerra mondiale calda. Ci sono state naturalmente più solide ragioni, soprattutto di carattere militare, che hanno impedito questo esito. Ma fissiamo questo punto.
I due appelli danno a Bobbio l’opportunità di riflettere sulla distinzione tra politica della cultura e politica culturale.
Politica della cultura «significa politica compiuta dall’uomo di cultura in quanto tale, non coincidente necessariamente con la politica che egli svolge come uomo sociale, onde la larga possibilità di unificazione che una impostazione siffatta può promuovere tra intellettuali appartenenti a partiti politici diversi». Compito francamente non entusiasmante. Politica della cultura, quindi, «come politica degli uomini di cultura in difesa delle condizioni di esistenza e di sviluppo della cultura», che si contrappone alla politica culturale, «cioè alla pianificazione della cultura da parte dei politici».
«Deve essere chiaro che contro la politica culturale, che è la politica fatta da-gli uomini politici, la politica della cultura promuove l’esigenza antitetica di una politica fatta dagli uomini di cultura per i fini stessi della cultura» (pp. 36-37).
Il grande sistematore di concetti non si smentisce nella sua cristallina chiarezza.
Il discorso di Bobbio, che si srotola attraverso i vari saggi, anche con sfumature diverse, per tutto il libro, è complesso, ma qui possiamo semplificarlo così: c’è un solo modo di fare cultura, ci sono due diversi modi di fare politica con la cultura. Uno per fini politici, uno per fini culturali. Qualcuno, forse più d’uno, sostiene che quello che non fu possibile allora, in tempi di guerra ideologica, diventa finalmente possibile oggi, dopo la fine, benvenuta (!), delle narrazioni ideologiche.
Per uno come me, di scuola non precisamente bobbiana, naturalmente questa sistemazione non funziona. Non funzionava allora, non funziona ora. La differenza non è data dall’intensità del conflitto; ma dalla natura del conflitto, che, pur nei secoli trascorsi dagli anni cinquanta ad oggi, non è sostanzialmente cambiata. Il problema non è di stare al di sopra delle parti, il problema è di stare da una parte in un certo modo.
Quella autonomia del politico senza cultura
Bene. Di questo dobbiamo ragionare. Come si sta da intellettuali, oggi, a sinistra. Primo punto. Secondo punto. Come si elabora cultura politica, dentro questa che è una grande crisi della politica. Non voglio parlare di intellettuali e politica, ma di cultura politica e politica. Il dato di fatto. C’è stato un rovesciamento di egemonia. A livello europeo e mondiale. Data dagli anni ottanta. Thatcherismo-reaganismo. Ma tutto dalla Trilateral, 1977. In Italia l’abbiamo sentito con più forza. Perché avevamo esercitato, noi, egemonia più che in altri paesi europei. Fin dai bui anni cinquanta. Vedi appunto Bobbio. Quella strana compresenza di conventio ad excludendum sul piano politico e diffusa presenza dominante sul piano culturale. Quando lo dicono gli altri, a loro fini, tendiamo a dire che no. Ma c’è stata egemonia della cultura di sinistra in Italia. Prima per il vettore del partito comunista, poi per il vettore delle lotte operaie, quindi per quello della contestazione giovanile, ancora per quello della rivoluzione femminile. Questa onda è durata fino a tutti gli anni settanta. Con continuità. Ne sono venuti fuori un paese politico e una società civile attiva, che ancora oggi, soprattutto nelle generazioni di mezzo che si sono formate in quella fase, malgrado i più che due decenni di controreazione, troviamo ancora in campo.
Poi la svolta. In quelle date che abbiamo detto: fine settanta, primi ottanta. Non capiremo di più discutendo: aveva ragione Craxi, aveva torto Berlinguer, non abbiamo capito il nuovo, ecc. Può darsi che compito della politica sia di cogliere il nuovo. Compito della cultura politica è raccordare il vecchio al nuovo, quello che di vecchio c’è nel nuovo e quello di nuovo che c’era nel vecchio. Un gruppo minoritario, un’avanguardia senza masse può farlo, una forza storica, no, non può interrompere il circuito tradizione-innovazione, non può non concepire il presente politico come storia.
Una parentesi. Per cominciare a individuare campi di ricerca collettiva che interessano l’attività di un centro come questo. La tradizione della sinistra è la storia del movimento operaio. Tutta intera, per lunghezza e per ampiezza. Patrimonio di lotte e di organizzazione, accumulo di esperienze, produzione di pensiero. Una forza senza tradizione non è una forza, è fragile, effimera, esposta ai venti della storia che arriva e ai modi in cui arriva. La memoria è una potenza aggregante, motivante, mobilitante. Tiene insieme in modo attivo donne e uomini di più generazioni, legandoli in un filo di solidale continuità. Uno dei più inquietanti slogan che siamo riusciti a produrre in questa fase recitava: meno ai padri più ai figli! Una redistribuzione interna alle generazioni invece che alle classi: geniale insulsaggine politica. Scindere i due versanti culturali di tradizione e innovazione è sempre un errore strategico. Perché qui si innesta la subalternità a ciò che è, che nel tempo del capitalismo è sempre naturalmente ciò che diviene, e soprattutto ciò che diviene sempre più in fretta. Non è il mutamento che va contrastato. Va rallentata l’accelerazione selvaggia dei mutamenti. La politica non insegue lo sviluppo. La politica dà equilibrio, ordine, cadenze e scadenze allo sviluppo.
È nella seconda metà degli anni settanta che abbiamo perso il contatto con le nuove generazioni. E non certo per colpa del fatto che i padri avevano vinto nel ’69. Non siamo riusciti a consegnare loro questa memoria di lotte vincenti. Qui non ha sbagliato solo la politica organizzata, ha sbagliato la cultura della sinistra. Era stata una cultura forte fin lì, dopo è diventata una cultura debole. O ci si è chiusi nella vecchia accademia, barattando l’impegno con il ruolo, o ci si è aperti alle cosiddette nuove professioni, vendendo l’anima. E anche noi, intellettuali organici – questa bella definizione oggi demonizzata –abbiamo le nostre colpe. Abbiamo oscillato tra eccessi di rotture e eccessi di integrazione: o mosche cocchiere o consiglieri del principe.Non abbiamo trovato la misura. E la misura era ed è l’autonomia culturale della politica. Su questa definizione ritornerò.
Anzi dico subito che l’autonomia del politico, non armata da un’autonomia della cultura politica, corre gravi rischi, si tecnicizza, diventa pragmatica invece che strategica, si fa autoreferenzale rispetto al ceto invece che relazionale rispetto alla società.
Fare egemonia
Riprendiamo invece il filo del discorso. Rovesciamento di egemonia. Anni ottanta. Ma che cos’è egemonia? È produzione di senso comune attraverso cultura politica. Diversa dalla produzione di opinione pubblica, in quanto maggioranza quantitativa del consenso. Questa non ha bisogno di cultura. Basta la comunicazione. Terreno importante. Da non sottovalutare. Ma non attiene in questo momento al nostro discorso. E lo apriremo questo discorso. Egemonia è produzione di senso comune intellettuale di massa. Terreno delicatissimo, e strategico. Perché su questo poggia, qui si fonda, l’orientamento delle élite. E questo va ad incontrare quei processi di acculturazione, che pesano poi in un senso o nell’altro. E allora sui processi contemporanei di specializzazione e di massificazione delle figure intellettuali, legate al carattere del lavoro immateriale, si è perso il gusto della ricerca, e ci sono qui vistosi buchi di analisi.
Abbiamo bisogno di una sociologia, che incorpori un sapere antropologico. Un’antropologia sociale, che non disdegni l’apporto delle scienze psicologiche. Queste società del capitalismo maturo invadono e devastano dall’interno la forma individuale «essere umano», anche in modi differenti nella differenza di genere.
Sarebbe interessante fare analisi di questo impatto nella differenza. Io credo che se l’orizzonte maschile dovrebbe rivedere criticamente il suo tradizionale ottimismo della volontà, credo anche che la dimensione femminile dovrebbe fare i conti con un po’ di pessimismo dell’intelligenza.
E ci sono mutamenti antropologici dentro quello che una volta chiamavamo il nostro blocco sociale, che una sinistra politica saggia e lungimirante non può non possedere culturalmente.
Due sono stati i terreni privilegiati dalla vincente offensiva neomoderata e neoconservatrice: il liberismo economico e il revisionismo storico. Due punti di forza ancora oggi presenti e pesanti. C’erano delle ragioni nella loro forza. Delle causazioni sociali storiche. Due processi complementari, che hanno fatto blocco. Crisi dello stato sociale e crollo del socialismo di stato. In ambedue era implicata la forma stato, questa dominante figura classica della politica moderna. La politica moderna ne è rimasta travolta.
È deflagrata la nozione di «pubblico», sfera pubblica, Öffentlichkeit.
Pubblicità: nel dibattito politico televisivo. Si interrompe il confronto delle idee per dar luogo alla promozione della vendita. Il messaggio del privato al pubblico, l’offerta del prodotto al consumatore. Ecco il rovesciamento. Il linguaggio. I nostri maestri del novecento ci hanno insegnato che il linguaggio non è la rappresentazione delle cose. È le cose. Demonizzazione del pubblico e crisi della politica hanno marciato insieme vittoriosi contro di noi.
Riqualificare l’idea e la pratica di pubblico, ripensarlo come idea-forza e rinnovarlo come pratica di governo: da qui può forse ripartire una controffensiva culturale, che come esigenza mi piacerebbe fosse evidenziata dal carattere di questa assemblea. Non, resistenza. Non mi piace questo resistere, resistere. A resistere si perde. Se è vero che il ciclo delle destre, in Europa, forse anche negli Usa, mostra segni di logoramento, si tratta di individuare i punti di attacco, le opzioni offensive, i luoghi da privilegiare per lo spostamento dei rapporti di forza, in vista e con l’obiettivo di una riconquista di egemonia.
Critica del capitalismo, critica della democrazia
A me pare di vedere – ma qui c’è da discutere e da obiettare – che tra democrazia e mercato il cerchio si è chiuso. La quadratura del cerchio è stata trovata. La contraddizione non si dà più. E la contraddizione era quella intravista dal revisionismo marxista di Bernstein, luogo di origine teorico della pratica socialdemocratica e della conseguente tradizione riformista. La democrazia metterà in crisi il capitalismo. È accaduto che il capitalismo ha messo in crisi la democrazia. Quest’ultima affermazione la fanno in molti. E qui al Crs è una sorta di consuetudine di pensiero. Io credo che qui bisogna fare un passo in più. Il capitalismo ha integrato la democrazia: nel suo orizzonte di autogoverno. È cresciuta la società democratica, nel senso tocquevilliano. Si è consumata la democrazia politica, nel senso giovane-marxiano: che preludeva a una sorta di riappropriazione della politica nelle funzioni sociali, ma di una società che sarebbe andata oltre la divisione in classi. E siccome la società divisa in classi non si è estinta, ma si è solo profondamente trasformata, e uno dei modi di questa trasformazione è stata proprio la fusione tra homo democraticus e homo oeconomicus, la conseguenza è stata il recupero della democrazia non in una generica società, ma in questa forma sociale capitalistica. La deriva populistica ne consegue a sua volta e la personalizzazione della politica le fa da contraltare. Il primato della comunicazione, il privilegio che si concede all’offerta del prodotto rispetto all’ascolto della domanda, fa il resto. Ha vinto l’idea schumpeteriana del mercato politico, come competizione tra attori sotto il segno di comportamenti economicistici, privatistici.
Non c’è allora soltanto un problema di esportazione della democrazia dove non c’è. C’è un problema di riforma della democrazia là dove c’è. Anzi, questo secondo processo rende credibile e fattibile il primo. Un’autocritica delle democrazie d’occidente è la porta per far passare altri diversi esperimenti democratici.
E riforma della democrazia è espressione debole. C’è un problema di direzione della democrazia. Sì, governo – politico – delle società complesse. Ma anche governo – politico – dei sistemi democratici. Politico, perché nella democrazia lasciata a se stessa, nello spontaneismo dei meccanismi democratici, quando sono segnati come oggi da logiche di mercato, c’è, si nasconde, si coltiva il virus dell’antipolitica.
L’antipolitica, come fenomeno di massa è ora il luogo di elezione dell’egemonia della destra. Populismo e leaderismo sono possibili e diventano praticabili sulla base di questo massificato sentimento antipolitico.
Però attenzione. L’antipolitica è qualcosa di più che la reazione alla corruzione dei politici o al teatrino della politica.
È una pulsione antropologicamente fondata sugli spiriti animali della società borghese di massa. La massificazione dell’opinione medio-borghese – non più solo piccolo-borghese – tutta va in questa direzione.
E accade che perfino certi movimenti di sviluppo generalmente positivi finisce che vengano catturati dentro questa onda dominante. Penso a quello che i sociologi chiamano «il godimento apolitico di un certo benessere», a livello individuale e famigliare, i processi di acculturazione diffusa, una certa coscienza crescente progressista, il «politicamente corretto», le ansie di una crescita non risarcita, quel paese che a volte ci descrive il Censis, tutto questo rischia poi di produrre acquiescienza, ovvero non contestazione nei confronti del modo di organizzazione sostanziale del rapporto sociale do-minante, quel moderatismo buonista, per uno come francamente indigesto. Qui, di nuovo la politica, e la cultura politica, a correggere, ad orientare, a spostare in avanti, a far intravedere l’altro e il di più che è possibile.
Provvisoriamente riformisti
La domanda è: ci troviamo di fronte a un rapporto sociale di classe – inteso come rapporto di forza – squilibrato a favore di una parte e a sfavore di un altra, o no? E allora: riequilibrarlo questo rapporto, o rovesciarlo? Io mi considero idealmente iscritto a questo secondo partito. Ma mi andrebbe bene anche se riuscissimo a riequilibrarlo. Se riformismo è questo, sarei anche disposto ad essere provvisoriamente riformista.
Introduco a questo proposito, spero con mano leggera, uno spunto polemico. Noi, sinistra postcomunista non abbiamo forse dato un qualche contributo al clima antipolitico che si è instaurato nel paese? Nel passaggio dalla cosid-detta prima alla cosiddetta seconda repubblica non abbiamo forse cavalcato questo umore di massa, a volte nutrendolo a volte ampliandolo? La stagione referendaria andava purtroppo in questo senso, alcune pulsioni giustizialiste anche, certe approssimazioni federaliste in tono localistico, pure. Ma soprattutto, quell’idea di società civile luogo di coltivazione delle virtù pubbliche di contro a una società politica luogo di commercio dei vizi privati. Invece di elaborare un progetto organico di riforma del sistema politico, invece di presentare noi il superamento della forma «stato dei partiti», in una nuova forma di spirito repubblicano incarnato in istituzioni e in organizzazioni rinnovate, per presentarlo al paese come soluzione della crisi, si sono inseguiti i problemi senza risolverli, o il che è lo stesso, risolvendoli volta a volta, in modo improprio, sull’urto della contingenza e dell’emergenza. Non so qui a chi spettano le colpe maggiori, se ai politici o agli intellettuali. So che si è creato un brutto circolo vizioso. I primi hanno perso la capacità di ascolto, i secondi hanno smarrito la via dell’impegno.
Il presente, ora e adesso
Misurare il problema sull’occasione presente. La manomissione selvaggia della Carta costituzionale ad opera di questa destra. Rispondere. Seguire e contrastare le letture in parlamento. I gruppi parlamentari hanno reagito Nel silenzio della cultura giuridica. Predisporre un’offensiva. Riprovare con la controproposta di un disegno organico, complessivo, autorevole, partecipato. Raccogliere le varie forze dei vari centri per questo lavoro. E con questo, parlare al paese.
La crisi della politica è più che transizione istituzionale. È crisi-quasi crollo delle categorie del politico. Zigmunt Bauman parlava qualche giorno fa di «uno sgocciolamento della politica». Magari fosse solo quella «politica della vita», nobilmente detta biopolitica, che cerca di risolvere a livello individuale il problema sociale. Qui c’è una bella pratica di femminismo, che il femmini-smo dovrebbe stare in guardia per non consegnarla a certe teorie degli uomini. Soprattutto quando vorrebbero introdurla nei movimenti.
Il dato duro della realtà è piuttosto un altro. Questa scissione in atto di potere e politica. Osservate. Là dove c’è potere – reale – non c’è politica. Là dove c’è politica – formale – non c’è potere. Se il novecento è stato l’età della potenza della politica, il dopo Novecento è l’età dell’impotenza della politica. E non so quale delle due condizioni sia la più favorevole per chi vuole cambiare le cose.
In questi giorni va di moda questa suggestiva bizzarria zapatista, che recita: «cambiare il mondo senza prendere il potere». C’è perfino un libro. Bah! Di che si tratta? Un rito misterico? Una pratica magica? La disposizione para-normale di muovere i tavoli a distanza? Prendiamo i problemi seri. Ad esempio: potere e legittimità, oggi. C’è questo breve dialogo, pubblicato nell’ultimo numero di Aspenia tra Huntington e Giddens. Il conservatore è, come al solito, più lucido del progressista. Dice Giddens: «Ritengo che il conflitto caratteristico della nostra era non sia fra le civiltà, per quanto la tua tesi sullo “scontro fra civiltà” sia una delle più brillanti teorie proposte nella storia recente della scienza politica; ma sia la lotta fra il cosmopolitismo da una parte e il fondamentalismo dall’altra».
«Sì – ribatte Huntington – ma l’Occidente ha un problema di legittimazione. Per essere più precisi: il mondo si trova di fronte al problema di un divario tra potere e legittimità. Un governo efficace e autorevole può esistere soltanto quando l’uno e l’altra – il potere e la legittimità – vanno di pari passo. In questo momento, gli Stati Uniti hanno la potenza ma, agli occhi della gran parte del mondo, mancano di legittimazione. La comunità globale deve risolvere il problema fondamentale di come mettere insieme potere e legittimità: esercitare il potere senza legittimazione può a lungo termine generare conseguenze deleterie. Se dovessi mandare un messaggio alla Casa Bianca di Bush sarebbe quello espresso così bene da Rousseau: il più forte non è mai abbastanza forte per riuscire a restare per sempre il padrone, a meno che non trasformi la forza in diritto e l’obbedienza in dovere.
Programmare politicamente
Trasformare la forza in diritto e l’obbedienza in dovere. Ecco un programma politico. Conquistarsi la forza, anche attraverso il consenso, non basta. Poi, bisogna curare la legittimazione della capacità di potere così acquisito. E non si tratta soltanto di mantenersi il consenso, ma di farsi riconoscere come autorità. La stessa cosa vale per il partito politico con la sua militanza e per il governo politico con il paese reale. Per ogni decisione chiedersi prima, e cercare, la legittimazione dell’atto. La legittimazione dei propri atti è come la costituzionalità delle leggi: un passaggio preventivo. Ed è un processo continuato, quotidiano, che mette radici, che fa storia. Autorità che fonda stabilità. Buon governo: ovvero riconosciuta autorevolezza della decisione.
Qui, la cultura politica acquista un ruolo specifico. Perché è mediazione tra politica e contingenza, tra decisione e storia, tra breve periodo e lunga durata, tra irruzione del nuovo e ritorno del sempre uguale, e poi tra razionalità di governo e inconscio collettivo, tra intelligenza degli avvenimenti e irrazionalità degli eventi. Oggi siamo di fronte a un passaggio inquietante. Il potere senza legittimazione produce guerra. E questo forse è il motivo per cui la guerra non è quella, o non è solo quel-la, tradizionale. Le nuove forme della guerra sono da conoscere. A lungo rovistando tra le rovine delle moderne categorie della politica, credo di aver capito realisticamente una cosa: la politica deve mutare le sue forme con il mutare delle forme della guerra. La cultura politica, in questo, è più stabile, più continuista. Non ha forme, ha fasi. Non ha strumenti, ha risposte.
Terrore postmoderno
Ma ecco la difficoltà di oggi. Il terrorismo, di massa, non è una forma di guerra, ma una guerra senza forma. È la guerra non più messa in forma.
È una guerra civile da stato di natura hobbesiano pre-statale.
Il mostro biblico di oggi non è Leviathan, è Behemoth. La guerra tradizionale attaccava i luoghi della città. Il terrorismo occupa i non-luoghi (alla Marc Augé), percorre i passages benjaminiani. Nella sua arcaica ferocia è una guerra postmoderna.
È anche volontà di potenza dall’alto e dal basso.
Ora, a questo c’è una risposta politica, c’è una risposta militare. Non ci deve essere anche una risposta culturale? E basta, a rispondere, una cultura della pace, una cultura della non violenza? Io credo che questa sia necessaria, ma non sufficiente.
È noto. A me piace pensare per estremi. Pensare per estremi è l’unico modo per produrre scoperta teorica. Pensiero forte in una realtà dura. Altra cosa, altro piano è l’agire. L’errore è agire conseguentemente per estremi. Qui, c’è falsa coerenza logica e reale contraddizione storica. Il pensiero è decisione/mediazione, l’azione è mediazione/decisione. Questo è il doppio della politica. Se uno non lo possiede, non se lo può dare. L’estremismo è la malattia infantile del politico.
Guardiamo a questa emergenza di oggi: il terrorismo-mondo. A suo modo guerra civile mondiale. Ma a suo modo anche guerra di religione. Come furono superate le guerre di religione del cinque-seicento? Con la forma stato. Spetta alla cultura politica elaborare una forma di sistema politico di relazioni internazionali, non imperiale, ma, come dire, repubblicano. Una forma di gestione dei conflitti che non sia l’utopia del governo mondiale. Ma appunto una rete di relazioni, intergovernative, interstatali, in grado di prevenire i conflitti, invece che intervenire quando il male è incurabile. Tra Europa e Globo: questo ormai è il nostro spazio naturale. E qui. Contro l’Italietta. Per una Italia-mondo. Qui, il compito della sinistra europea e della Kultur d’Europa. Di fronte alla mondializzazione, non il cosmopolitismo, ma l’internazionalizzazione. Ripensare, ripraticare, questa «nostra», e solo nostra, idea-forza.
La nostra cultura
La cultura, qui dentro. Eredità passive, anche per noi, da superare. Elaborare pensiero in termini di geopolitica. Oltre le diffidenze. Le faglie di contrasto nei punti critici, la terra, come spazio, l’etnia, il sacro. Quanto più accelera il nostro sviluppo, tanto più i residui arcaici si estremizzano. Quanto più tecnica qui da noi, tanto più violenza fuori. Anche se lo stesso arcaico della violenza, esso stesso ormai, si tecnologizza. E poi. Riaprire il capitolo di analisi della dimensione religiosa. Troppe qui le approssimazioni marxiste. E infine. Dietro e prima della figura tragica del (della) kamikaze, non c’è forse il nostro novecentesco essere-per-la morte? Oltre che civettare con il linguaggio heideggeriano, ci abbiamo fatto i conti filosofici? Solo il pensiero femminile, quello della differenza, si è fatto protagonista di una risposta teorica, con il simbolico materno, col rovesciamento nell’essere per la vita. Qui c’è da imparare.
Va preso seriamente in considerazione il bisogno di un fare e di un pensare alternativo, che, dobbiamo saperlo, non si sente rappresentato da nessuna prospettiva, anche la più intelligente, di carattere riformista. Noi intellettuali di sinistra interlocutori dei movimenti. Lì, interessanti pratiche di azione e capacità di mobilitazione, ma nello stesso tempo una certa povertà culturale. Prestare con modestia un aiuto, riempiendo il vuoto dell’indifferenza e della diffidenza nei confronti della politica. Con loro una conricerca sulle nuove forme di lotta, sui nuovi livelli di organizzazione, sui nuovi strumenti di conoscenza, sui nuovi modi di intervento, perché siano efficaci, in grado di produrre risultati, spostare rapporti, sbloccare o rilanciare processi, a seconda dei casi.
Insomma confrontarci con i movimenti sulla politica e sulla cultura politica.
Quando avremo fatto tornare indietro una decisione di guerra, con una mobilitazione dal basso e contemporaneamente con un’iniziativa dall’alto, allora potremo dire di aver trovato lo strumento alternativo.
Allora, non sarà più pacifismo, ma politica della pace.
La concreta utopia della politica mondo
Ci sono due direttrici di ricerca, che all’apparenza sembrano divaricarsi e che in realtà vanno fatte convergere. Una in direzione della formazione delle élite, qui e ora. L’altra in direzione di un progetto di società, per il domani e il dopo. Brevemente, e per accenni. La crisi della politica si può leggere anche, non solamente, come crisi di ceto politico. Anzi, più in generale, come crisi delle classi dirigenti. I luoghi di selezione delle élite, quello weberiano, il Parlamento, quello michelsiano, il Partito, non funzionano certo più in questo modo. In assenza dei luoghi della selezione, non c’è selezione. Non è un problema solo italiano, né un problema solo della sinistra.
È la politica-mondo che è attualmente implicata, con scarsa consapevolezza, dentro questo problema. Vogliamo rifletterci su?
La seconda direzione. «Un altro mondo è possibile». Bella come definizione. Ma come deve essere fatto questo mondo? La critica del capitalismo non sarà credibile finché non sapremo indicare l’effettivo funzionamento di una società senza capitalismo. Come non sarà comprensibile una critica della democrazia finché non sa-premo che cosa di meglio mettere al suo posto. Era rozza quell’immagine: questo qui è il capitalismo, quello là è il socialismo. Ma era di una capacità mobilitante addirittura miracolosa. A livello di massa, per quelli che chiamavamo uomini semplici. Gli uomini, e le donne, semplici, ci sono ancora, nelle nostre orrende peri-ferie metropolitane, come nei nostri splendidi paesini di campagna. Non siamo diventati tutti, e tutte, intellettuali. Per i quali «essere contro» è un vezzo e chi se ne importa di quelli, dei più, che, se non vedono altro, sono costretti a prendersi quello che c’è. Voglio dire che forse bisogna cambiare il passo della ricerca, dall’analisi alla prefigurazione, come «concreta utopia» (Bloch), con il coraggio di sporgersi sull’abisso di come potrebbe e dovrebbe esser l’altro mondo che vogliamo, l’organizzazione della società, il funzionamento dello stato, la pratica di governo, la conquista della cultura, la liberazione del e dal lavoro, cioè la vita. Il vecchio Lukács parlò di «democrazia della vita quotidiana». Non potremmo cominciare a parlare di politica della vita quotidiana?
Afferrare il Leviatano
Per concludere. Se la cultura politica deve essere mediazione tra politica e contingenza, de-ve stare un passo avanti rispetto alla politica della, o nella, contingenza. La cultura politica non deve certo guidare, ma, sì, anticipare. Qui si esprime il suo carattere naturalmente «critico». Questo è un modo di concepire la cultura politica, non certo l’unico ed esclusivo, ma a me piacerebbe che fosse il modo del Crs. Che del resto in questo ha una sua significativa tradizione, a lungo impersonata nella figura di Pietro Ingrao. Cultura politica critica. Come critica di ciò che è, di ciò che avviene, di ciò che diviene.
Questa idea, molto diffusa oggi, anche tra noi, che siccome una cosa c’è, non solo è legittimata ad esistere, ma è destinata a condizionare, a orientare, a determinare la nostra stessa esistenza, a me pare, non solo un’idea impolitica, ma antipolitica, estranea all’essere di una sinistra di governo.
Noi dobbiamo prepararci a riassumere il governo del paese. E dunque, pensare, fare studio, fare ricerca in questa prospettiva. E governo certo è sapere disciplinare, politica degli esperti, conoscenza specialistica dei problemi, approntamento empirico delle soluzioni. Ma governo è anche visione d’insieme, immaginazione creatrice, possesso intellettuale delle relazioni tra cose, e insieme gestione di movimenti dei soggetti, rappresentazione di bisogni delle persone in società, e poi e per questo, è produzione di futuro, e di futuro altro, alternativo.
La sinistra deve fare governo con passione politica. E suscitare, mentre governa, nel proprio popolo, passione politica.
Ecco perché serve, ma non basta, una pura tecnica di governo. Serve, ma non basta, una cultura tecnica per il governo politico.
A me pare di vedere che oggi la volontà di potenza è tutta della tecnica e niente della politica. Anzi, e più precisamente, per non dar luogo a equivoci romantici, bisogna dire così: non è la potenza della tecnica che spaventa, è piuttosto la potenza della tecnica davanti all’impotenza della politica.
Il primato della dimensione tecnica sulla dimensione umana è il problema che la grande filosofia del novecento ha consegnato alla politica e che la politica non ha saputo risolvere. I totalitarismi hanno evocato il processo, le democrazie lo hanno subito. Solo il comunismo – questo abbiamo a lungo pensato – avrebbe potuto afferrare il Leviatano della tecnica per farlo servire allo sviluppo dell’umanità. Qui – bisogna capire prima di tutto noi e far capire a tutti – che in questo cammino, il fallimento nella realizzazione del socialismo ha ributtato indietro tutta intera la storia umana. Lì non è fallito l’esperimento di una parte di mondo e dell’uomo, lì è andato al fallimento l’intero progetto moderno, il progetto del moderno, l’umanesimo, come uso della razionalità tecnica al servizio della ragione umana. Se non afferriamo questo «nostro» problema, di quella cosa lì tragicamente finita, come qualcosa che attiene alla storia contemporanea, e al suo destino come problema genericamente degli esseri umani in società oggi, non lo risolveremo nemmeno dentro di noi.
Non invidio quelli di noi che in fretta hanno archiviato questo problema, con leggerezza e, peggio, con soddisfazione. Non li invidio. So con certezza che né il pensiero della politica, né la pas-sione per la politica abitano lì.
Basta. A rileggere questo tipo di discorso (neoclassico, ma questo è il mio modo, scelto, di reagire al postmoderno) mi sono accorto che sa molto di volontà, molto di dover essere. Non so perché è venuto così. Ci rifletterò nei prossimi giorni. In realtà, sono più mie, queste ultime tonalità.
Il film De reditu, l’ex prefetto di Roma Claudio Rutilio Namaziano, V sec. d.C., in piena decadenza, anzi in piena rovina, non solo dell’assetto imperiale, ma dell’impianto di civiltà antico, assalito su due fronti, da barbari e da cri-stiani. Parla il vecchio patrizio, tra rassegnazione e disincanto. Ci sono due specie di uomini: quelli che fanno ricorso alla fede, e quelli che fanno ricorso al dubbio. Oggi – dice – gli uomini di fede sono feroci, gli uomini del dubbio sono stanchi. La condizione nostra non è molto diversa. Dietro le luci, o i luccichii, di questa civiltà, in verità il profetizzato tra-monto dell’Occidente si è realizzato. Altre parti di mondo, altre realtà di popoli, risalgono la china della storia. Qui c’è la razionale fede nello sviluppo. Altrove c’è l’irrazionale fede nel fanatismo religioso.
Ma, ecco, tra la ferocia e la stanchezza, ci deve pur essere un varco in mezzo, attraverso cui passare. Quale sia e dove sia questo varco, io non lo so. Da solo, in questi anni, non l’ho trovato. E proprio perché non lo so e non lo trovo, mi sono detto: forse cercando in-sieme ad altri in una struttura organizzata di ricerca, si riesce a fare meglio.
Questo è uno dei motivi di fondo per cui sono qui.
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