Tutto sembra essere già stato detto sulle elezioni europee. Ed effettivamente non c’è molto da aggiungere se ci si limita alla contabilità di vincitori e vinti. Lo straordinario risultato del Partito Democratico a trazione renziana (40,8% per 11,2 milioni di voti) è un indicatore chiaro e definitivo del significato di queste elezioni. Solo la DC, nel ’58, era riuscita a ottenere percentuali più alte, raccogliendo il 42,4% e anche guardando ai voti reali, il record assoluto spetta sempre alla DC del ’76, votata da 14,2 milioni di elettori. A tutt’oggi, lo scudocrociato è l’unico partito ad aver superato il tetto dei 14 milioni di voti. Se la DC ottiene il primo e secondo posto in questa speciale classifica, la terza posizione va assegnata al PDL che, in occasione delle politiche 2008, raccolse 13,6 milioni di voti. A sinistra, il miglior risultato è quello del PCI nel 1976, votato da 12,6 milioni di elettori, mentre per il PD il record è nel 2008, sempre in occasione di elezioni politiche, con 12,1 milioni di voti.
LA MOBILITÀ ELETTORALE
Tutto questo, naturalmente, non fa arretrare di un centimetro la dimensione della vittoria del Partito Democratico alle elezioni europee, perché ciascuno dei risultati citati è stato ottenuto in circostanze assai diverse da quelle maturate nel voto del 25 maggio. Per esempio, non si era mai registrato uno scarto così ampio tra il primo e il secondo partito e mai un partito aveva ottenuto percentuali così alte in un sistema tripolarizzato, cioè con tre forze politiche capaci di raccogliere molti voti in competizione tra loro. Ma nel risultato del 25 maggio c’è molto più di un successo elettorale. Ed è proprio la straordinarietà dell’evento a suggerire un supplemento di riflessioni. La prima riguarda la mobilità elettorale.
Analisi voto Tecnè
I risultati delle politiche dello scorso anno furono definiti – a ragion veduta – un «terremoto politico». L’epicentro del sisma, la cui velocità a terra ha avuto come effetto visibile il successo elettorale di Grillo e del suo movimento, era nel profondo di una società, delusa, sofferente e ferita dalla crisi. Enormi masse di elettori si erano staccate dalle tradizionali appartenenze politiche e avevano restituito una fluttuante geografia del consenso che aveva trovato nel Movimento 5 Stelle un momentaneo approdo.
In precedenza, non si era mai registrata una mobilità elettorale così alta da un’elezione all’altra e, per molti versi, le elezioni dello scorso anno rappresentano una linea di demarcazione netta con il passato. Il risultato che hanno restituito le urne domenica 25 maggio equivale, anche se in forma diversa, a ciò che accadde poco più di un anno fa. La «massa fluttuante» non si è ridotta rispetto alle politiche e l’energia che si è scaricata non ha una scala diversa, meno intensa, rispetto a febbraio 2013. Basti pensare che solo un elettore su quattro, tra quelli che si sono recati alle urne, ha dichiarato di essere convinto al 100% del partito che avrebbe votato. Un terzo degli elettori, cioè circa 9milioni di elettori, esprimeva invece una «convinzione» inferiore al 50%.
Un voto fluido, quindi, che riflette quella società liquida descritta da Zygmunt Bauman, una società che non si identifica in nessun insediamento preesistente e non riesce a «solidificarsi» in uno specifico aggregato sociale.
Se i consensi ai grandi partiti di massa del Novecento erano caratterizzati da legami politici forti e riflettevano una corrispondenza sociale stabile e definita, negli ultimi appuntamenti elettorali il voto sembra sempre più caratterizzato da legami politici deboli e da un consenso provvisorio. Nel confronto tra i tre principali partiti, il successo del PD sembra nascere proprio dalla capacità attrattiva di un voto fluido e mobile.
Il Partito Democratico che ha vinto le elezioni europee è, infatti, un partito molto diverso da quello che «non ha vinto» le elezioni politiche. Il PD di Renzi è un partito dove solo il 52% aveva votato il PD di Bersani. Gli altri voti arrivano da elettori «nuovi» e se il principale affluente del nuovo bacino elettorale nasce da Scelta Civica, un’altra importante quota di voti arriva da chi aveva disertato le urne lo scorso anno. È un partito più giovane e trasversale rispetto al passato, e definirlo «più di sinistra» o «più di destra» è un’impresa ardua quanto inutile, nel momento in cui è attraversato da correnti sociali che non si riversano in alcun invaso preesistente.
Quando Matteo Renzi dice che l’obiettivo per il PD è prendere residenza dentro quel 40% di voti, non dichiara un obiettivo elettorale ma politico, perché questo voto non esprime una delega definitiva, né una rappresentanza sociale, tanto è multiforme e percorso da sfumature diverse. Ciò che è accaduto quest’anno è influenzato da significati molto diversi da quelli di un anno fa. Se il senso del voto del 2013 fu una protesta che esprimeva il desiderio di un cambiamento senza compromessi, il risultato delle elezioni europee esprime la domanda di un cambiamento che vuole trovare forma in una proposta. C’è molto Renzi in questo, ma non solo.
C’è soprattutto una società stanca e sofferente che ha bisogno di avere speranze e orizzonti prossimi e non lontanissimi. Questo cambio di prospettiva non è secondario e suggerisce, come titolo di queste elezioni, «l’attesa».
RISPOSTA REALE
L’attesa, cioè, che «la domanda» maturi in una risposta reale e concreta. È questo sentimento che Renzi è riuscito, più di altri, a intercettare. Ed è questo il mandato conferito dagli elettori che hanno scelto il PD, senza essere al 100% PD. Tutto questo offre lo spazio per una seconda riflessione che non può essere elusa da risultanze provvisorie.
L’eccezionalità del risultato delle europee, nei presupposti in cui è maturato, suggerisce che altri eventi «straordinari» possono verificarsi fino a quando il sistema non troverà un suo equilibrio. Un equilibrio sociale prima ancora che politico. E, su questo versante, la sfida è ancora più alta perché presuppone il radicamento in agglomerati trasformati dalla crisi, in quella popolazione che vede l’uscita dalla sofferenza ancora lontana, se non un orizzonte irraggiungibile. Venti milioni tra poveri o prossimi alla povertà, sono una massa che nessuna società che vuole definirsi «avanzata» e democratica può permettersi. E i 22milioni di astensionisti ne sono un riflesso eloquente. Tra questi, la politica continua ad aggirarsi distratta, come tra i detriti di un mondo rovesciato. Eppure è qui che deve essere trovare la risposta all’uscita dalla crisi. Perché il futuro dell’Italia, prima ancora che tra «chi non è ancora», passa tra «chi non è più».
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