di Andrea Pasqualetto, nostro inviato a Rimini
L’assassino che infila l’ingresso secondario del residence, che sale le scale, bussa alla porta di Pantani, irrompe nella stanza, immobilizza il Pirata e lo costringe a bere un bicchiere d’acqua dove prima ha sciolto la cocaina, uccidendolo. Anzi, suicidandolo, perché questo era l’obiettivo del killer, farlo passare per un suicidio involontario. Un piano diabolico, perfetto, cinematografico. Marco Pantani potrebbe essere morto così. L’ipotesi è dell’avvocato della famiglia del ciclista, Antonio De Rensis, e dunque della famiglia stessa e di mamma Tonina in particolare, che ha sempre lottato perché il sipario sulla fine prematura di suo figlio non fosse calato con quell’infamante «morte per overdose di cocaina».
No: omicidio volontario. Questo è il risultato della complessa indagine difensiva fatta da De Rensis e depositata la scorsa settimana alla procura di Rimini, costringendo così gli inquirenti ad aprire una nuova inchiesta sul caso Pantani, a distanza di oltre 10 anni da quel 14 febbraio 2004, quando il corpo senza vita del campione fu trovato riverso a terra in una stanza del residence «Le Rose» di Rimini dove stava soggiornando, disperato e solo. Il procuratore della città romagnola, Paolo Giovagnoli, chiarisce tutto rispondendo al telefono dalla vacanza: «Allo stato sappiamo solo che c’è un esposto nel quale si ipotizza che Pantani sia stato ucciso volontariamente. Come atto dovuto abbiamo aperto un fascicolo iscrivendolo a modello 44 (il registro delle notizie di reato contro ignoti, ndr), visto che non si indicano eventuali responsabili. Ma a dire il vero non abbiamo ancora letto nulla e quindi bisognerà aprire con calma questo plico cercando di capire cosa dicono. Cioè, l’indagine non è ancora partita».
E invita all’attesa anche il vincitore del Tour Vincenzo Nibali: «Non credo faccia bene al ciclismo parlare della morte di Pantani, e nemmeno a Marco», ha dichiarato ieri a Vanityfair . «Non stiamo analizzando i risultati di un’inchiesta. Evitiamo di fare i processi sui giornali».
Cosa ci sia all’interno del ponderoso esposto lo spiega l’avvocato De Rensis che l’ha firmato dopo averci a lungo lavorato: «Si tratta di un documento molto articolato che si compone di tre parti: un’indagine difensiva con nuove e importanti testimonianze, una rilettura degli atti processuali e d’indagine, circa 5 mila pagine, e una consulenza medico legale. Il tutto porta ad una realtà dei fatti molto diversa da quella emersa ufficialmente all’epoca della prima inchiesta che è stata minata alla base da enormi lacune e contraddizioni. Alla base di tutto c’era un assunto quasi granitico: nessuno è entrato e nessuno è uscito da quell’appartamento». L’indagine di allora portò al patteggiamento di due spacciatori, Fabio Miradossa e Ciro Veneruso, che avevano confessato di aver portato 20 grammi di cocaina a Pantani la sera del 9 febbraio, rispondendo così di morte come conseguenza di altro reato. A processo finì invece Fabio Carlino, titolare di un’agenzia di ragazze immagine, che avrebbe collaborato alla fornitura della droga. Condannato in primo e secondo grado, Carlino è stato prosciolto in Cassazione. Cos’è dunque cambiato? A dare valore all’esposto è senza dubbio la consulenza medico legale firmata dal professor Francesco Maria Avato, docente universitario e dirigente del Dipartimento interaziendale strutturale di medicina legale a Ferrara. Un luminare del settore.
Ma quali sono gli elementi nuovi e forti del documento di De Rensis? Primo: esisteva un secondo ingresso nel residence, dal garage, che consentiva di salire ai piani fino alle ore 23 senza passare dalle portineria e dunque senza essere visti. Secondo: i tre giubbotti pesanti e tecnici trovati nella camera di Pantani. «Chi li ha portati lì, se ben quattro testimoni confermano di aver visto Pantani sempre e solo con una piccola sportina dove certamente i giubbotti non entravano?». Terzo, scientifico: «Le ferite di Pantani, compatibili con una colluttazione più che con una caduta a terra. Un bernoccolo, un taglio all’arcata sopraccigliare, le ferite circolari al capo». Quarto: la quantità di droga. «Considerato che ne è stata trovata dappertutto a terra e che i 20 grammi li aveva da 5 giorni, non sarebbe bastata per un overdose. Qualcuno ne ha portato dell’altra». Quinto: le impronte digitali: «Perché non furono rilevate?». Cinque dubbi ai quali gli investigatori di allora rispondo con poche parole: semplice, perché la verità è che è morto di overdose.
(Corriere della Sera
Andrea Pasqualetto, nostro inviato a Rimini.)
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