Padroni e schiavi nell’Agro Pontino

Foto-Omizzolo-Marco

“Siamo sfruttati tutti i giorni – afferma Singh Kulwinder – e se ci ribelliamo il padrone ci manda via. In campagna lavoro per raccogliere i ravanelli piegato sulle ginocchia tutto il giorno. Siamo come schiavi”. È una delle tante storie di lavoratori indiani sfruttati nelle campagne della provincia di Latina, ad appena cento chilometri da Roma.
Sono circa 30 mila e senza l’impegno della coop In Migrazione e della Flai CGIL, delle loro storie e dei responsabili del loro sfruttamento non si saprebbe nulla. Percepiscono in media 3,5 euro l’ora per lavorare tutti i giorni sotto caporale anche 14 ore al giorno a fronte dei 9 euro lordi l’ora che da contratto dovrebbe percepire per 6,30 ore di lavoro al giorno, con pagamenti che ritardano mesi. Subiscono violenze e intimidazioni e solo raramente trovano giustizia nelle aule di tribunale. Gli incidenti sul lavoro sono quotidiani, le malattie legate allo sfruttamento diffuse come anche gli incidenti mortali, soprattutto quando percorrono in bicicletta le lunghe miglia per recarsi sul posto di lavoro.
Ne ho fatto esperienza diretta lavorando come infiltrato per diversi mesi nelle campagne pontine. Ho visto la violenza del padrone e del caporale unita alla loro capacità di costruire un sistema organizzato fondato sulla tratta, lo sfruttamento e l’intimidazione. Espressioni di un potere che è mafioso in sé. Alcuni braccianti indiani sono obbligati a chiamare padrone il loro datore di lavoro e a volte a fare tre passi indietro e ad abbassare la testa quando si rivolgono a lui.
Alcuni guadagnano appena 300 euro al mese. “Io lavoro tutto il giorno – dice Hardeep Singh – Vado in bicicletta al campo indicatomi dal caporale indiano con un messaggio su wup e lavoro dalle 7.00 fino a sera tardi. È molto faticoso e il padrone è sempre molto duro. Da contratto devo prendere quasi 9 euro l’ora, ma mi dà 3 o 4 euro”.
Alcuni lavoratori indiani per sopravvivere a questi ritmi massacranti sono indotti ad assumere sostanze dopanti, come già denunciato da “In Migrazione”, in grado di inibire la sensazione di fatica fisica e mentale. Assumono oppio, metanfetamine e antispastici per sopportare lo sfruttamento quotidiano. Una piccola parte di questi sta virando verso l’eroina, che peraltro acquistano nei mercati della droga campani, stabilendo un ulteriore legame tra il Pontino e la camorra.
Altri, i più fragili, si suicidano impiccandosi nelle serre o nei propri appartamenti, soprattutto quando non riescono a pagare i debiti maturati col trafficante o il caporale.
Si è così formato un sistema mafioso che unisce il trafficante indiano, il caporale indiano e il padrone italiano, insieme a vari faccendieri che sullo sfruttamento hanno costruito un business redditizio. Una mafia spietata dentro un sistema agromafioso già consolidato che è stato in parte contestato il 18 aprile del 2016, quando “In Migrazione” e la Flai CGIL con i braccianti indiani organizzarono il più grande sciopero di lavoratori stranieri degli ultimi decenni. Più di duemila lavoratori protestarono a Latina, di lunedì, contro lo sfruttamento e il caporalato. La più importante manifestazione antimafia sociale reale in un territorio in cui le mafie sono radicate da decenni.
Emblematico il caso del mercato ortofrutticolo del Comune di Fondi, la cui amministrazione non fu sciolta per mafia nel 2009 per responsabilità del governo Berlusconi, nonostante le evidenze dimostrate da un’accurata relazione del prefetto di Latina di allora, Bruno Frattasi. Davanti quel mercato si incontravano mafiosi come Gaetano Riina, fratello di Totò Riina, e Nicola Schiavone, figlio di Francesco Schiavone detto Sandokan, del clan dei Casalesi, insieme ad esponenti del clan Mallardo.
Le indagini svelarono un accordo che consentiva ai Casalesi e i loro alleati partenopei la gestione monopolistica attraverso la ditta “La Paganese” di tutti i trasporti dei prodotti ortofrutticoli da e per il centro Sud relativamente ai mercati siciliani di Palermo, Trapani, Catania, in parte anche Gela; e per i siciliani, il libero accesso e vendita di loro prodotti nei mercati della Campania e del Lazio cancellando la concorrenza.
Un accordo che consentiva loro anche di gestire un traffico internazionale di armi pesanti. Alla base dell’accordo ci fu un incontro a Reggio Calabria tra Antonio Sfraga, suo figlio Giovanbattista, Gaetano Riina e Antonio Venanzio Tripodo, ai vertici della ‘ndrangheta, per spianare la strada alla famiglia siciliana nel mercato di Fondi, il cui accesso era controllato proprio da Tripodo.
Oltre che sull’intimidazione e sullo sfruttamento questo sistema mafioso è favorito da intimidazioni a istituzioni, imprenditori, forze dell’ordine, giornalisti e magistrati. Una consorteria criminale frutto del coordinamento tra diversi clan e da mafie straniere, dunque, legittimata da decenni di irresponsabile sottovalutazione e connivenza di un’intera classe dirigente e solo recentemente intaccata dall’azione delle forze dell’ordine e della magistratura.
Sono le mafie pontine dei padroni e dei padrini, che riducono in schiavitù lavoratori e lavoratrici migranti, gestiscono traffici di droga e servizi necessari all’agrobusiness, riciclano milioni di euro, espressione di un network di interessi e relazioni mafiose che ancora godono di protezioni politiche altissime.

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