Un cambio di paradigma possibile grazie all’inversione di tendenza che ha registrato l’economia statunitense negli ultimi mesi. Si potrebbe sintetizzare in questo modo la proposta di Barack Obama di aumentare le tasse ai ricchi al fine di favorire il ceto medio. Una mossa politica e al tempo stesso economica: da un lato la volontà di rimarcare i valori liberal che lo hanno contraddistinto fin dalla prima campagna elettorale del 2008 e dall’altro uno spostamento delle priorità, ora che l’economia ha ripreso a correre. L’inquilino della Casa Bianca ha ribadito il suo progetto in occasione del discorso sullo stato dell’Unione dinanzi al Congresso a maggioranza repubblicana e per questo non particolarmente caldo rispetto alle sue proposte (il tema immigrazione, ad esempio, è una questione piuttosto spinosa).
Il Fondo monetario internazionale (Fmi), che ha di recente tagliato le stime di crescita mondiale, osserva un andamento più che soddisfacente nel solo caso americano (ricordiamo il +5% del Pil raggiunto nel terzo trimestre del 2014). Gli Stati Uniti godono in questa fase di un’economia che procede spedita oltre le aspettative dei mesi passati, il risultato di un processo lungo che è seguito (anche) all’ambizioso programma di investimenti imposto dall’amministrazione Obama mentre nella vecchia Europa si ricorreva quasi esclusivamente ad una lunga serie di politiche restrittive con lo scopo di tenere sotto controllo i conti pubblici. Lo schema che sembra ora cambiare anche nell’Eurozona è in qualche modo evidenziato dal possibile programma Quantitative Easing che la Bce di Mario Draghi dovrebbe annunciare giovedì 22 gennaio, una misura “non convenzionale” che permetterebbe a Francoforte di “emulare” il raggio d’azione della Fed. Quest’ultima, infatti, la banca centrale degli Stati Uniti, ha tra i suoi obiettivi – oltre al mantenimento del livello generale dei prezzi – quello di incentivare l’occupazione (il tasso di disoccupazione è calato ulteriormente nei mesi scorsi al 5,6%).
Tali condizioni favorevoli stanno così concedendo a Obama l’opportunità – retorica a parte di un’improbabile alleanza con i repubblicani su alcuni specifici temi – di ritagliarsi in potenza un ruolo per certi versi riformatore (in direzione di una società più equa, si intende), lascito per chi verrà dopo di lui. La Casa Bianca ha chiarito in questi giorni alcuni aspetti: nel 2012 i 400 contribuenti più ricchi hanno pagato in media il 17% di imposte, vale a dire meno delle famiglie della classe media. Dunque la riforma fiscale, secondo le prime stime della Casa Bianca, dovrebbe portare nelle casse dello Stato 320 miliardi di dollari in dieci anni e i tagli farebbero risparmiare al ceto medio 175 miliardi in imposte. In soldoni: aumento al 28% (dall’attuale 23,8%) delle aliquote per capital gains e dividendi per i redditi più alti, quelli sopra i 500 mila dollari, e maggiore peso fiscale per le cento maggiori banche.
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