State per leggere un articolo paradossale: un interista che difende Balotelli. Sia chiaro: i tifosi nerazzurri non sono affranti perché SuperMario non gioca più nella loro squadra, e non hanno dimenticato la notte di Inter-Barcellona quando Materazzi lo appiccicò al muro dello spogliatoio. Però, a tutto c’è un limite. I messaggi trasversali arrivati dai «veterani» della Nazionale, nei quali Balotelli non veniva mai nominato ma distintamente evocato, sono stati assai sgradevoli. Di più: ci sono sembrati il segno definitivo di un malcostume che non inquina solamente il nostro calcio ma anche l’atmosfera, il costume, in una parola grossa la cultura di tutto il Paese.
Sgombriamo subito il campo da un equivoco, consapevoli di rendere il discorso ancora più paradossale: non crediamo c’entri il razzismo. Siamo sicuri al cento per cento che Buffon, De Rossi e Prandelli non ce l’hanno con Balotelli in quanto figlio di immigrati. Proprio per questo la reazione del giocatore ci è sembrata fuori luogo, dovuta alla stizza e al nervosismo: il discorso sui «negri» che sarebbero «anni luce avanti» ai bianchi non sta ovviamente in piedi, e ha il sapore antipatico del razzismo di ritorno. No. Buffon e De Rossi non hanno attaccato Balotelli in quanto «negro». Secondo noi hanno fatto di peggio. Lo hanno attaccato in quanto non omologabile alla loro mentalità, estraneo alle logiche del gruppo, insofferente della disciplina alla quale sono abituati. Lo hanno liquidato in quanto «giovane». Gli hanno fatto la morale partendo dal presupposto che loro sono «veterani», hanno combattuto mille battaglie, ci hanno sempre – parola del portiere della Juve – messo la faccia. E qui cascano non uno, ma molti asini.
Partiamo dal dato sportivo. I «veterani» che oggi accusano i giovani del fallimento brasiliano sono gli stessi che quattro anni fa, in Sudafrica, hanno fatto una figura molto peggiore. Perché sarà bene ricordare che in Brasile siamo usciti da un girone «di ferro», e avendo vinto almeno una partita (grazie a un gol di Balotelli, per inciso), mentre in Sudafrica rimediammo una figura barbina non riuscendo a battere superpotenze calcistiche come Paraguay, Nuova Zelanda e Slovacchia. E Balotelli, nel 2010, non c’era. Qualcuno rimproverò Lippi di non averlo chiamato. Chissà: era reduce dal Triplete con l’Inter, ma con Mourinho non era un titolare fisso. Fu convocato per la prima volta da Prandelli, per la prima amichevole post-Mondiale.
Si dice: ma i «veterani» sono coloro che hanno vinto il Mondiale nel 2006. Certo. Sono gli stessi che hanno fatto ridere nei due Mondiali successivi, ma è vero, nel 2006 hanno vinto. Era la Nazionale di Lippi sconvolta e paradossalmente cementata da Calciopoli, e buona parte dei «veterani» militavano e militano in squadre ampiamente inquisite e condannate. Stiamo arrivando al dunque, come vedete: da quale pulpito possono pontificare giocatori che hanno passato la carriera nella Juve di Moggi o nel Milan di Galliani (anch’esso coinvolto in Calciopoli), che sono scesi in campo con la scritta «boia chi molla« (Buffon), che sono stati coinvolti in giri di scommesse clandestine (sempre Buffon), che da anni distribuiscono periodicamente gomitate agli avversari mettendo in difficoltà la propria squadra (De Rossi, sia in Nazionale – proprio ai Mondiali del 2006 – sia nella Roma)? Si dice: Balotelli è inopportuno, ha una vita privata agitata, combina un sacco di sciocchezze. Beh, saranno affari suoi: così come sono affari dei «veterani» le loro vite private, delle quali qui assolutamente non si parla. Ma l’unica differenza fra Balotelli e i suoi accusatori è nell’uso compulsivo dei social-network: Mario e molti giocatori della sua età «twittano» qualunque cosa passi loro per la testa, gli ultra-trentenni non lo fanno. Ma il paese è piccolo, la gente mormora, le riviste pettegole spettegolano. Quindi, ancora una volta: da che pulpito?
Le critiche che i «veterani» hanno rivolto a Balotelli violano una regola sacra del calcio, secondo la quale in campo si perde e si vince in 11. Finiranno per affibbiargli la colpa anche del morso di Suarez a Chiellini, e del gol di spalla di Godin (magari doveva marcarlo lui, che era già stato sostituito). È un comportamento al quale possiamo dare un nome preciso: nonnismo. Chi scrive, il nonnismo l’ha subito, in caserma. È quel meccanismo in base al quale gli «anziani» (coloro che sono alla vigilia del congedo) si sentono autorizzati a vessare e talvolta, letteralmente, torturare i commilitoni appena arrivati, le cosiddette «burbe» o «spine» o «zanzare». Il nonnismo è una cosa bieca, dalla logica palesemente fascista: chi ha più potere ha la facoltà di perseguitare chi ne ha meno, non in base a presunti meriti, ma per puri motivi gerarchici. Balotelli si è trovato nella situazione di una «burba» messa in mezzo dai «nonni», che da sempre si fanno forti della loro solidarietà interna. Non è una cosa bella, ed è aggravata dal fatto che l’attaccante del Milan è stato scelto come capro espiatorio di un fallimento collettivo.
Come ha scritto Nicola Cacace sull’Unità di ieri, lo j’accuse di Buffon e degli altri «veterani» nei confronti di Balotelli è il simbolo di un Paese sempre più vecchio e sempre più ostile ai giovani. Non stupiamoci se ragazzi come Immobile o Verratti (o lo stesso Balotelli ai tempi del Manchester City) vanno serenamente a giocare all’estero. Stupiamoci piuttosto dell’arretratezza del calcio persino rispetto alla politica, forse per la prima volta nella sua storia. Un altro Mondiale così, altre polemiche così, e il calcio italiano chiude bottega. È quello che vogliamo?
l’Unità 27 Giugno 2014
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