Le balle di Grillo su BankItalia

17 - Architettura d'interni - Pomello con monogramma della Banca Nazionale nel Regno d'Italia

Beppe Grillo, durante l’incontro con i suoi, avrebbe detto: “La Banca d’Italia è degli italiani e deve restare pubblica”. Capita però un pò troppo spesso per un leader di un gruppo così folto di parlamentari, di dire sciocchezze, per altro pericolose oltre che infondate, in materia economica.

Eppure basterebbe che Grillo seguisse ciò che lui stesso diceva nei suoi spettacoli: “informatevi, non crete a tutto quello che vi dicono”.
Intanto per sapere di chi è la Banca d’Italia basta vedere la scheda degli azionisti, per verificare – forse anche con troppa faciltà – che la Banca d’Italia non è un’azienda pubblica. Quindi nessun regalo a nessuno. Ma una semplicissima regolamentazione. I soci di BankItalia sono qui. Basta leggere.
Veniamo poi ad alcune cose che Grillo e i suoi parlamentari hanno sostenuto in questi giorni. Senza entrare nel merito di come le hanno sostenuti, con i toni e i comportamenti che sono stati sin qui abbondantemente censurati, e che come vedremo probabilmente servivano solo ed unicamente a nascondere la loro ignoranza e incompetenza (non si offendono, citerò il deputato De Rosa “non ce l’ho con nessuno in particolare, parlo in generale”). Cerchiamo di affrontare e sfatare punto per punto quanto sostenuto dai pentastellati, Grillo in testa.

La Banca d’Italia è pubblica.
La Banca d’Italia non è mai stata statale, ma proprietà degli istituti bancari e assicurativi. Storicamente, la Banca nasce da un processo di federazione delle Banche pre-unitarie, con un modello analogo a quello della Federal Reserve americana. La legge del 1936 ha scelto di non assoggettare la Banca d’Italia al Governo, ma di lasciarla indipendente dalle ingerenze della politica. La riforma approvata dal Parlamento mantiene quella scelta.

Banca d’Italia è proprietà di tutti gli italiani.
Con le privatizzazioni bancarie degli anni ’90 e il successivo processo di concentrazione bancaria si è realizzato un processo di concentrazione anche delle azioni di Banca d’Italia. Il suo azionariato era diffuso, appunto tra molti istituti, ma a seguito delle fusioni e acquisizioni degli anni passati oggi più del 50 per cento è in mano a Intesa San Paolo e Unicredit.

C’è il pericolo che i controllati (le banche) controllino il controllore (la Banca d’Italia)
No, perché la Banca d’Italia è e resta un Istituto di diritto pubblico e i soci proprietari delle azioni non hanno alcun potere sulla governance dell’istituto e sulla gestione delle attività istituzionali della Banca. Tuttavia l’attuale assetto proprietario non è soddisfacente, e lasciava a molti la possibilità di pensare che i grandi gruppi bancari possano esercitare qualche influenza sulle decisioni della Banca centrale, che deve invece restare indipendente.

Con questa riforma si fa un regalo alle grandi banche che potranno acquisirla tutta.
Nessuno potrà possedere più del 3 per cento delle azioni di Banca d’Italia. Gli azionisti che oggi ne possiedono di più dovranno vendere. Potranno comprare, oltre a banche e assicurazioni, anche le Fondazioni ex bancarie e i fondi pensione, con la limitazione che deve trattarsi di società aventi sede legale in Italia.

Si è scelto il modello “proprietà diffusa” invece di statalizzare la Banca d’Italia per favorire banche e grandi lobby
Tremonti, nel 2005, aveva scritto una norma per la statalizzazione, oggi sostenuta dai 5 stelle e da Forza Italia. Naturalmente, se fosse lo Stato a comprare le azioni oggi in mano alle banche, ci vorrebbe una copertura finanziaria di svariati miliardi, da togliere ad altre voci di spesa pubblica o da ottenere con un aumento delle tasse.
Chi è contrario alla statalizzazione sostiene anche che meglio avere una Banca d’Italia in posizione di servizio istituzionale rispetto allo Stato piuttosto che in posizione di comando gerarchico da parte del Governo, che comunque è pro tempore.
Sin qui i chiarimenti.

Qualche informazione in più la possiamo dare con qualche domanda a Marco Causi , nato a Palermo il 15 ottobre 1956, Laurea in scienze statistiche e demografiche; Professore associato di discipline economiche, capogruppo Pd in commissione finanze.

A quanto ammonta, prima della riforma, il capitale della Banca d’Italia?
A 156 mila euro, la cifra stabilita nel 1936 e mai aggiornata. Che diritti hanno, prima della riforma, gli azionisti che possiedono quel capitale?
Lo statuto del ’36 prevedeva la distribuzione di utili agli azionisti nella misura massima del 4 per cento delle riserve della Banca. Si tratta di una regola molto favorevole agli azionisti, e infatti quel valore massimo non è mai stato raggiunto. Le riserve di Banca d’Italia ammontano a circa 15 miliardi, il 4 per cento varrebbe 600 milioni, mentre l’ultimo dividendo distribuito è di 70 milioni. Come rendimento sul capitale investito, però, non c’è male: 70 milioni di dividendo su 156 mila euro equivale a un tasso di rendimento superiore al quattromila per cento! Il punto è, ovviamente, che bisogna rivalutare il capitale originario stabilito nel 1936 e separare il calcolo dei dividendi dalle riserve – poiché in queste ultime sono compresi anche i frutti delle attività pubbliche e istituzionali di Banca d’Italia, i quali non possono essere distribuiti ai soci ma invece accumulati nelle riserve della Banca e retrocessi in parte allo Stato (l’ultimo dividendo attribuito allo Stato, sul bilancio 2012, è stato di un miliardo e mezzo).

Come procedere alla rivalutazione?
Finora è mancato un criterio omogeneo. Alcune banche azioniste, nei loro conti patrimoniali, non lo hanno rivalutato, altre lo hanno fatto, ma usando criteri diversi. In qualche caso, per effetto della norma statutaria che lega i dividendi alle riserve nella misura massima del 4 per cento, la rivalutazione è stata abbondante e si potrebbe da parte dell’azionista – teoricamente – accampare pretese legali sugli utili non distribuiti negli ultimi decenni. Merito della riforma è di stabilire un criterio oggettivo e uniforme per effettuare la rivalutazione.

Qual è la regola per la rivalutazione?
La nuova regola è che agli azionisti verrà riconosciuto un rendimento non superiore al 6 per cento del capitale investito (non più, quindi, delle riserve). Il valore del capitale viene portato a 7,5 miliardi. Quindi, il massimo dei dividendi attribuibili in futuro è di 450 milioni, una cifra inferiore al massimo oggi raggiungibile. Anche se, in tutti e due i casi, si tratta di valori puramente teorici, perché lo Statuto continua a conferire alla Banca, come in passato, piena discrezionalità nella decisione sugli utili da distribuire. Dato che la Banca d’Italia è un investimento assolutamente privo di rischio, è altamente probabile che il tasso di rendimento accettabile dal mercato sia molto inferiore al 6 per cento.

Qual è il beneficio “di sistema” di questa operazione?
Finora le azioni di Banca d’Italia non potevano far parte del capitale di vigilanza dei soggetti che le possedevano, appunto perché non stavano sul mercato e non c’era un criterio univoco di valutazione. Grazie alla riforma, potranno essere inserite nel capitale di vigilanza.

C’entrano forse Basilea 3 e i nuovi criteri prudenziali dell’Unione bancaria?
Sì. Le banche sono limitate, nel credito che possono erogare, dalla quantità del loro patrimonio. I requisiti di patrimonializzazione richiesti alle banche sono molto aumentati dopo la crisi del 2008-2009. Si è ritenuto che una delle cause della crisi risieda nel fatto che le banche siano state poco attente a valutare i loro impegni. Tutti gli organismi internazionali, e per ultima l’Unione Europea, hanno introdotto metodi più stringenti di valutazione dei rischi e requisiti patrimoniali più elevati. E questo è, insieme alla crisi dell’economia reale, una delle cause del credit crunch, e cioè della restrizione del credito bancario di cui soffrono, in Italia, soprattutto le imprese piccole e medie.

Quindi i 7,5 miliardi derivanti dalla rivalutazione rafforzano il patrimonio del sistema bancario?
Ma in questo momento di crisi si dovevano proprio regalare 7,5miliardi di denaro pubblico alle banche?
Sì. E si ottiene questo risultato senza spendere neanche un euro del bilancio pubblico. I proprietari delle azioni rivalutate le venderanno sul mercato per scendere al 3 per cento: i soldi che andranno alle banche verranno dal mercato, non dallo Stato. In Germania invece, finora, lo Stato ha dovuto sborsare ben 64 miliardi di euro di spesa pubblica per ricapitalizzare le banche tedesche – molte delle quali hanno avuto rilevanti difficoltà, soprattutto nel comparto delle banche regionali. Il Regno Unito ne ha spesi 82, la Francia 25, la Spagna 64. L’Italia solo 6, destinati peraltro a emissioni obbligazionarie che verranno restituite all’erario e non a contributi a fondo perduto.

Ma questa operazione è permessa dalle regole europee?
In effetti si tratta di un’operazione un po’border line: si ottiene un beneficio di sistema rivalutando carta che oggi non sta sul mercato (le azioni della Banca centrale). Per questo motivo la Bundesbank ha storto il naso e sono uscite in Germania opinioni contrarie – della serie “la creatività italiana ne combina un’altra delle sue”. La Banca centrale europea, però, ha dato il via libera all’operazione, anche se ha lamentato i tempi troppo stretti intercorsi fra la richiesta del suo parere da parte del Governo italiano e la successiva emanazione del decreto. Insomma, si tratta di un caso in cui l’Italia è riuscita a ottenere dall’Europa un’interpretazione delle regole a lei favorevole. Certo, il parere della BCE è molto deciso nel prescrivere che le riserve andranno ricostituite con adeguati accantonamenti negli anni futuri e che la Banca d’Italia deve mantenere una piena autonomia di finanziamento.

Perché le riserve della Banca d’Italia sono così alte?
Innanzitutto, sia chiaro che l’operazione in corso non concerne le riserve in oro (100 miliardi), né quelle speciali (circa 8 miliardi) ma solo quelle ordinarie e straordinarie (circa 15 miliardi). In effetti, l’ammontare complessivo delle riserve della Banca d’Italia è il terzo al mondo, dopo Stati Uniti e Germania e il secondo in Europa. Storicamente, derivano da un atteggiamento prudenziale dell’Italia – esistente da sempre, ben prima che fossero fissate le regole dell’Unione Economica e Monetaria. In passato, la motivazione era di avere sufficienti munizioni per difendere il cambio della lira. Dopo la crescita del debito pubblico italiano durante gli anni ’80 del passato secolo, le riserve sono diventate l’ultimo baluardo di garanzia sulla sostenibilità del debito.

Le riserve della Banca d’Italia potrebbero essere usate per altri scopi, ad esempio per finanziare investimenti pubblici o altre forme di spesa pubblica?
No, assolutamente no. Non si tratta di un “tesoretto” a cui liberamente attingere, ma appunto di un attivo che garantisce l’intero paese all’interno dell’Unione Economica e Monetaria. In passato, anche Romano Prodi tentò di strappare un margine di flessibilità per smobilizzare una quota delle riserve e utilizzarla per politiche di sviluppo, ma non riuscì a ottenere l’assenso delle autorità europee. Oggi, dopo la crisi finanziaria e con l’Italia soggetta alla crisi del suo debito pubblico, è impensabile anche solo ipotizzarlo. In realtà, le riserve non vengono spese neppure con l’operazione effettuata dal decreto 133, perché esse cambiano semplicemente collocazione all’interno dello stato patrimoniale della Banca d’Italia, spostando 7,5 miliardi da riserve a capitale sociale. Abbiamo però ottenuto il massimo possibile nelle condizioni date: utilizzarle come volano per il rafforzamento del patrimonio del sistema finanziario (bancario e assicurativo) italiano, con effetti indirettamente positivi sulla crescita tramite riduzione delle restrizioni sul credito.

Perché la riforma di Banca d’Italia è stata legata all’IMU?
Perché la copertura finanziaria per l’abolizione della rata IMU prima casa di dicembre è stata messa a carico del settore creditizio, finanziario e assicurativo, nonché della stessa Banca d’Italia, con l’aumento degli acconti IRES e IRAP e con un’addizionale straordinaria alle aliquote IRES, per un totale di 2,163 miliardi nel 2013 e 1,5 nel 2014. Mentre, da un lato, si chiede questo sforzo al settore, dall’altro gli si concede il beneficio indirettamente derivante dalla rivalutazione delle azioni della Banca centrale. Peraltro, dalla rivalutazione emergerà un introito fiscale aggiuntivo di circa un miliardo per il bilancio dello Stato. Questo introito, però, non è stato ancora quantificato né inserito nei quadri di finanza pubblica.

E’ vero che l’imposizione sulle plusvalenze derivanti dalla rivalutazione è agevolata?
Solo in parte. Si è stabilita un’imposta del 12 per cento. Per alcuni soggetti questa imposta è meno favorevole – potendosi tali soggetti avvalere della partecipation exemption (pex), che costerebbe molto meno (circa il 2 per cento). Per altri soggetti, che non potrebbero avvalersi della “pex”, invece il 12 per cento è meno di quanto si dovrebbe pagare con il regime ordinario IRES. Nel complesso, tuttavia, il gettito che deriverà dal 12 per cento è superiore a quello che sarebbe emerso mantenendo per ciascun soggetto la legislazione ordinaria vigente. [ nella rivalutazione dei cespiti l’imposta sostitutiva da versare si applica nella misura del 12 per cento per i beni non ammortizzabili. In pratica la norma applicata, correttamente, fa rientrare le quote non in investimenti finanziari – che tali non erano – ma in quote di patrimonio – ndr] Insomma: ma allora va tutto bene in questo decreto 133?

No, il Partito Democratico ha criticato numerosi aspetti del decreto, sia nel metodo sia nel merito. Per quanto riguarda il metodo, una riforma così importante avrebbe dovuto essere fatta per legge e non per decreto. Bisogna capire però l’origine di questo errore da parte del Governo: l’origine sta nell’affannosa ricerca delle coperture finanziarie per l’abrogazione dell’IMU prima casa, una misura che ci è costata ben 4,5 miliardi nel 2013, senza distinguere fra chi avrebbe potuto tranquillamente continuare a pagare l’IMU sull’abitazione di residenza e chi invece aveva il diritto ad essere esentato – in base al valore della sua abitazione ovvero del suo reddito. Altri punti critici, di merito, riguardano la fase transitoria.

Cosa succede nella fase transitoria?
Per tre anni gli attuali proprietari delle azioni potranno venderle alla stessa Banca d’Italia. Nulla da eccepire sulla possibilità che la Banca d’Italia eserciti un’accorta regia nella riallocazione delle sue stesse azioni. Ma così la Banca si prende qualche rischio – se dovesse, ad esempio, acquistare a un prezzo superiore a quello di vendita. Il rischio è di tipo patrimoniale per la banca, ma anche di tipo politico per il paese, poiché se la Banca dovesse acquistare i suoi titoli dagli attuali proprietari a un prezzo “troppo alto”, si potrebbe configurare un aiuto di Stato vietato dalle regole europee. I paletti contenuti nella legge, nel parere della BCE e in alcuni ordini del giorno accolti dal Governo in aula dovrebbero ridurre questi rischi.
Michele Di Salvo
L’Unità

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