Nella prima metà degli anni Cinquanta, per le strade circolavano poco più di 400mila automobili e c’erano 4 apparecchi televisivi ogni 1.000 abitanti. Per vedere Febo Conti, Settenote o la Domenica sportiva comodamente seduti nel salotto di casa, bisognava spendere una cifra che corrispondeva a circa dodici mensilità di un reddito medio, vale a dire il costo attuale di un’utilitaria di fascia media.
Dieci anni dopo, le auto circolanti in Italia erano 2,5 milioni e gli apparecchi televisivi quasi 6 milioni. Erano gli anni di una crescita non solo economica ma anche sociale. Gli italiani guardavano Non è mai troppo tardi, un programma d’insegnamento elementare condotto dal maestro Alberto Manzi che ha aiutato milioni di italiani ad affrancarsi dall’analfabetismo. Le grandi trasformazioni avvenute in quegli anni alimentavano l’idea che in Italia, come in altri paesi occidentali, la rigida divisione in classi appartenesse ormai al passato. E, in effetti, il cambio di struttura economica iniziato negli anni Cinquanta con il processo d’industrializzazione prima e di terziarizzazione poi, hanno segnato una rapida crescita della classe operaia urbana e della classe media impiegatizia, insieme all’affermarsi di una borghesia legata alla piccola industria e al commercio, registrando tassi elevati di mobilità sociale ascendente. Erano anni in cui a crescere era il numero di posizioni sociali più elevate, e non si poteva fare altro che abbandonare la classe di origine e salire, determinando l’ascesa sociale dei figli delle classi economiche più svantaggiate. Una mobilità che ha consentito non solo a milioni d’italiani di raggiungere condizioni di benessere individuale, ma a tutto il Paese di crescere e acquistare fiducia in se stesso, dando corpo a un ceto medio sempre più diffuso e dinamico.
Mobilità sociale
È stato questo il grande potere della mobilità sociale: non solo il recupero di efficienza economica legata a una gamma più ampia di opportunità, ma il diffondersi di un sentimento di fiducia che ha spinto a investire per migliorare la propria condizione e a guardare avanti.
Questo imponente processo di mobilità sociale ha avuto il suo apice negli anni Sessanta per rallentare progressivamente nei decenni successivi. E mentre diminuivano le possibilità di ascesa sociale, crescevano contestualmente i vantaggi determinati dalla posizione di partenza ereditata della famiglia. Con il risultato che, dagli anni Ottanta, gli eredi delle classi medie e superiori riuscivano con minore frequenza a ricalcare la dinamica ascendente dei padri, e assai più fatica dovevano fare i figli delle classi inferiori per emanciparsi dalle loro origini.
Già negli anni Novanta, le possibilità che avevano i figli d’imprenditori, liberi professionisti, dirigenti di accedere ai vertici della gerarchia sociale superavano di dodici volte le possibilità su cui potevano contare i giovani provenienti da famiglie di classi inferiori. Non solo: le classi più elevate riescono anche a garantire una protezione più elevata contro i rischi di discesa verso posizioni inferiori, riducendo, quindi, le opportunità di ricambio ai vertici della piramide sociale. Questo fenomeno si accentua ancora di più nel decennio successivo fino a quando, a cavallo tra il nuovo secolo e i giorni nostri, le traiettorie sociali invertono la direzione. Gli ascensori sociali si bloccano in salita, mentre aumentano le frequenze delle discese e l’Italia sperimenta, complice anche la crisi economica, una radicale discontinuità storica rispetto agli ultimi cinquant’anni. Gli individui tra i 25 e i 40 anni rappresentano la prima generazione del dopoguerra a rivelarsi impossibilitata a migliorare la propria posizione rispetto a quella dei propri genitori. E questa condizione non riguarda soltanto l’ascesa verso i livelli superiori dei figli delle classi più svantaggiate, ma anche l’accesso dei figli delle classi medie e alte alle posizioni già occupate dai genitori.
Non solo si accentua, cioè, la posizione di vantaggio derivante dalla provenienza familiare ma i posti disponibili nelle posizioni apicali, complice la crisi economica, si sono notevolmente ridotti, col risultato che molti giovani, pur provenienti da classi elevate, sono costretti ad accontentarsi di essere collocati in posizioni economicamente e socialmente meno prestigiose.
Paradossalmente, ad aggravare gli effetti del blocco della mobilità sociale ascendente è la crescita dei livelli d’istruzione dei giovani. A parità di titolo di studio, infatti, i figli si collocano in posizioni professionali meno qualificate rispetto a quelle dei loro genitori, rendendo inevitabilmente meno produttivo il loro capitale umano.
A un anno dal titolo
La fotografia di questo fenomeno è nell’indagine che ogni anno il consorzio Almalaurea realizza sulla condizione occupazionale dei laureati. A un anno dal conseguimento del titolo, il tasso di disoccupazione dei laureati di primo livello è cresciuto di oltre 11 punti in soli 4 anni, passando dal 15,1% del 2008 al 26,5% del 2012. E mentre è cresciuta la difficoltà a trovare un lavoro, per gli occupati si sono ridotti i guadagni netti mensili, inferiori di un quinto per i laureati nel 2012 rispetto ai colleghi che hanno conseguito il titolo nel 2008. Un fenomeno che inevitabilmente induce a ritenere la laurea meno efficace rispetto al passato. Difficile, quindi, pensare che sia un caso il fatto che l’Italia si colloca in fondo alla classifica europea per numero di giovani tra i 30 e i 34 anni che ha conseguito un titolo di studio universitario.
La straordinaria crescita delle economie occidentali, che ha preso avvio nel dopoguerra, ha corrisposto a un ampliamento delle possibilità degli individui di elevarsi dalla condizione di partenza, a una rimozione delle barriere di ceto, a un rafforzamento dei sistemi di protezione sociale, a una crescita generale dei livelli d’istruzione.
Per questo il tema della mobilità sociale è centrale nel momento in cui si è impegnati collettivamente nello sforzo di uscire dalla lunga fase recessiva di questi anni. Un tema che non riguarda soltanto il “quando” si tornerà ai livelli pre-crisi ma anche il “come”, visto che il deterioramento delle opportunità di accesso ha fatto tornare gli indici di mobilità sociale indietro di sessant’anni.
Carlo Buttaroni
l’Unità
14 aprile 2014
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