Può esistere un sistema democratico formato da partiti che, al loro interno, non rispondono a principi e strutture democratiche? Quali sono i possibili correttivi a queste distorsioni istituzionali? Qual è, da questo punto di vista, la situazione nel nostro arco parlamentare e quali sono i vincoli posti dalla nostra Costituzione? Le recenti discussioni, nate, fra l’altro, dall’espulsione di alcuni senatori dal Movimento 5 stelle, hanno, fino ad ora, solo scalfito la complessità e la profondità di queste domande. Il dibattito sul tema è quantomai articolato e intricato se si considera che, già nel 1911, l’analisi dell’SPD tedesca del sociologo e politologo Robert Michels prendeva l’abbrivo proprio da questo genere di questioni. L’allievo di Max Weber partiva infatti dal presupposto che non potesse esistere un sistema democratico in cui i partiti non possedessero a loro volta lo stesso carattere. Ma già un secolo fa l’analisi giungeva a conclusioni profondamente discordanti con le sue stesse premesse. La legge ferrea dell’oligarchia, postulata da Michels, asseriva che “chi dice organizzazione dice tendenza all’oligarchia”.
L’analisi dello studioso di Colonia, che giungeva quasi a teorizzare l’impossibilità di instaurare un vero sistema democratico (“io di rivoluzioni ne ho viste tante, di democrazie mai”), enfatizzava il carattere verticale del partito socialista tedesco, la sua natura gerarchica, la presenza di “una minoranza che ha il compito di dirigere ed una maggioranza che viene diretta”. Al di là della diffidenza di Michels appare comunque evidente la tendenza, di ogni organizzazione umana, ancor più di quelle che detengono e gestiscono potere, ad assumere, con il tempo, una struttura oligarchica. Per questa ragione sarebbero necessari dei paletti, delle limitazioni che costringano l’agire umano entro confini ben definiti. E’ qui che nasce un altro, annoso, dibattito.
Nel volume “La Costituzione tra elasticità e rottura”, il prof. Fulco Lanchester dedica ampio spazio alla discussione, ancora aperta, sul concetto stesso, costituzionalmente parlando, di partito. Sottolineando lo scivolamento in atto dell’idea di partito da quella originariamente contenuta nell’art. 49 della Costituzione, “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”, a quella, che nell’art. 18 (“i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale”) descrive le associazioni, Lanchester evidenzia la necessità di disciplinare in modo più stringente la materia. Le ragioni storico-politiche che hanno impedito di inserire nella Costituzione una descrizione più accurata e precisa di queste particolari organizzazioni (con un riferimento specifico proprio alla democrazia interna) sono molte e complesse ma il risultato è un quadro in cui il ruolo e le caratteristiche dei partiti appare alquanto sfumato.
E’ quindi evidente quanto sia difficile affrontare oggi, concretamente, il problema. Eppure qualche considerazione può esser fatta. Non sono infatti assolutamente assimilabili le esperienze dei principali tre partiti del nostro attuale panorama politico; PD, PDL e Movimento 5 stelle. Il ricorso, quasi eccessivo, all’uso delle primarie (certamente opinabile, vista anche la sua natura di pedissequa copia di un sistema, quello americano, molto diverso dal nostro) da parte del partito guidato, ora, da Matteo Renzi è, sotto questo aspetto, certamente il più interessante. Riprendendo l’esempio proposto da Michels nel 1911 è interessante notare come, già nel 1957, gli studiosi Seymour Lipset, Martin Trow, e James Samuel Coleman proponevano come caso deviante alla legge ferrea dell’oligarchia quello dell’Interational Tipographical Union. Nell’ITU esisteva un gruppo di potere stabile che si rinnovava per cooptazione, ma nel momento del rinnovo delle cariche si fronteggiavano due liste di candidati. La presenza, di volta in volta, di confronti elettorali aperti garantiva quindi all’intera organizzazione un buon grado di democraticità interna. Una presenza assimilabile a quella che oggi caratterizza il Partito Democratico. Per quanto discutibile, quindi, l’impianto del PD rappresenta forse il miglior esempio di struttura di partito a carattere aperto del nostro panorama parlamentare.
Molto diversa è infatti la posizione, ad esempio, del Popolo della libertà. La tendenza carismatico-plebiscitaria del partito guidato da Silvio Berlusconi sembra avvicinarsi maggiormente a quella concezione di istituzione oligarchica teorizzata da Michels. La riluttanza ad adottare sistemi simili alle primarie, dettata sicuramente anche da esigenze elettorali, unita al forte accentramento del potere intorno ad una figura magnetica e persuasiva come quella di Berlusconi, non rendono certo il PDL uno dei partiti a più alto tasso di democraticità interna. Va detto, come ovvio, che la tendenza carismatico-plebiscitaria non appartiene certamente solo al Popolo della libertà (come ben descritto da Mauro Calise nel volume Il partito personale). La stessa presenza, nel PD, di un leader come Matteo Renzi, dimostra piuttosto quanto tutto il sistema politico, non solo italiano, stia slittando verso questa concezione di partito. Uno slittamento che non trova però, nel PDL, particolari vincoli od ostacoli.
Ancora diversa è, infine, la struttura e l’organizzazione del Movimento 5 stelle. Una corrente che, già dal nome, non partito ma movimento, dovrebbe richiamare alla mente i concetti di apertura e democrazia. Non è un caso, infatti, se la massima dello schieramento guidato da Beppe Grillo sia un più che eloquente “Uno vale uno”. Dalle parole ai fatti la differenza appare però netta. La tanto decantata democrazia diretta della rete risulta, infatti, nella prassi, ancora utopia. E’ indiscutibile che la corrente di Grillo metta ai voti ogni proposta o decisione ma, anche tralasciando le questioni relative alla limpidezza del sistema delle votazioni, è impossibile non porsi alcune domande. E’ così necessario, in un sistema parlamentare come il nostro, ricorrere continuamente al voto popolare? O ancora, quale rappresentatività possono avere alcune decine di migliaia di voti su una popolazione di 60 milioni di abitanti?
E infine, come si può parlare di democrazia diretta della rete se almeno il 50% degli italiani risulta completamente sconnesso dal web? Le recenti vicende dei senatori Bocchino, Campanella, Battista e Orellana, espulsi dal movimento, apparentemente per un “reato d’opinione”, aggiungono poi importanti interrogativi anche sulla reale democraticità interna di questo schieramento. Una risposta in tal senso, con toni più sereni di quelli utilizzati (sempre per fini elettorali) da Beppe Grillo, sarebbe sicuramente cosa gradita. Gradita certamente anche a tutti quegli elettori che appaiono sempre più afflitti da dubbi e perplessità, tormentati da una domanda difficile da cancellare; ma uno vale effettivamente uno?
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