Incarichi Ue, è battaglia aperta: al via il valzer delle poltrone

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Cominciano le danze. Mentre ancora si definiscono gli ultimi dettagli sulla composizione del nuovo Parlamento europeo, a Bruxelles stasera si vedono i capi di Stato e di governo per cominciare a parlare del futuro assetto al vertice dell’Unione.

Entro novembre, si sa, dovranno essere rinnovate le presidenze della Commissione e del Consiglio, andrà scelto il nuovo responsabile della politica estera e della sicurezza (Pesc) e, probabilmente, anche il presidente dell’eurogruppo. Il Parlamento, poi (anzi: prima) dovrà eleggere il proprio presidente, che rientrerà nel pacchetto degli incarichi da concordare. Con il pudore diplomatico delle cose europee si dice che nella riunione di stasera i 28 leader massimi cominceranno a discutere sui «criteri» da adottare in questo tourbillon di nomine.

Qualcuno, un po’ brutalmente, traduce spiegando che il confronto sarà sostanzialmente un primo giro di tavolo sui veti che i diversi governi dell’Unione hanno posto o porranno sui nomi che circolano o si preparano a circolare. Due «no, grazie» sono già diventati pubblici e sono quelli del premier britannico e di quello ungherese sul popolare Jean-Claude Juncker alla guida della Commissione.

Il lussemburghese avrebbe, agli occhi di David Cameron e di Viktor Orbàn , il viziaccio di essere troppo europeista: un «supereuropeo», secondo la candida definizione di diplomatica londinese. Il veto inglese potrebbe essere superato, ma, come si vede siamo già in piena pretattica per le decisioni che dovranno essere prese in autunno. Un clima di manovre, veti possibili, aspirazioni più o meno confessate che contrasta con il quadro democratico, abbastanza chiaro, delineato dal voto.

E che rischia di dar ragione a posteriori a quelli che del deficit di democrazia nelle istituzioni europee, che esiste e va corretto, fanno un uso strumentale: anti-euro ed euroscettici di ogni estrazione. I popolari, che con i loro 213 seggi hanno la maggioranza relativa e con ciò il diritto di proporre il candidato, dovrebbero essere tutti schierati con Juncker. Il quale, peraltro, ha già rivendicato il proprio diritto. I socialisti (190) possono contare di portare il loro Martin Schulz al vertice solo nel quadro di un accordo con le altre forze: un’alleanza con Verdi e liberali, cui potrebbe aggiungersi la sinistra di Tsipras, oppure una grosse Koalition alla tedesca. In questo scenario, il socialista e il popolare si dividerebbero le presidenze della Commissione e del Consiglio e il capo della terza forza, i liberali, andrebbe alla guida del Parlamento.

Sembra semplice, ma non lo è. Il veto britannico su Juncker non è l’unico ostacolo da aggirare. La cancelliera tedesca dice di appoggiare il lussemburghese, con il quale in passato ha avuto non poche frizioni, ma potrebbe non volere rompere con Londra. E così alcuni media tedeschi fantasticano già su uno scenario in cui Angela Merkel convincerebbe i colleghi del Consiglio a tirare fuori un terzo nome rispetto a Juncker e a Schulz.

Secondo lo Spiegel potrebbe essere il premier irlandese Enda Kenny, o l’attuale direttrice del Fmi Christine Lagarde o persino un redivivo Mario Monti. E a Berlino è girata anche la voce di una «simpatia» che la cancelliera nutrirebbe nei confronti di Enrico Letta. Con tutto il rispetto per Monti e Letta, l’ipotesi del “terzo uomo” dovrebbe essere esclusa da chiunque abbia a cuore quel po’ di democrazia che alberga nelle istituzioni europee: sarebbe uno schiaffo in faccia non solo alle grandi famiglie politiche europee, ma allo stesso Parlamento e al Trattato di Lisbona che ha fissato il suo ruolo nella scelta della guida della Commissione.

L’evocazione di nomi italiani in questa delicatissima fase richiama in qualche modo un problema che esiste: il risultato delle elezioni ha consegnato un grande potere al Partito democratico in seno al Pse, di cui è oggi la componente più forte.

Nella logica spartitoria per nazionalità (sbagliata) con cui da molte parti si guarda alla composizione dei vertici dell’Unione, alla nuova forza dei democratici italiani dovrebbe corrispondere un incarico di rilievo. Ma, per dirla brutalmente, i posti importanti sono tutti «occupati». Di Commissione e Consiglio abbiamo detto, al Pesc un italiano del Pse sarebbe inopportuno se un socialista sarà già alla testa della Commissione o del Consiglio.

L’attuale ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan alla guida dell’eurogruppo (ipotesi di cui si sarebbe parlato) parrebbe incompatibile con la presenza dell’italiano Draghi alla Bce. Al di fuori delle cariche istituzionali, buone chance politiche ha l’italiano Gianni Pittella di essere chiamato alla guida del gruppo socialista e da lì, forse, potrebbe sperare di decollare, nell’usuale staffetta di metà legislatura, verso la presidenza dell’assemblea che per ora, nello schema di cui sopra, toccherebbe al liberale belga Guy Verhofstadt. In termini di «nomi» l’Italia, insomma, non avrebbe grandi prospettive.

Ma forse non è un male, come ha fatto in qualche modo capire anche Renzi nella conferenza stampa di ieri quando ha ricordato che le istituzioni europee non debbono rispondere a criteri nazionali e che lo sforzo del governo italiano, che si prepara a un semestre di presidenza del Consiglio al quale arriva con un po’ di affanno ma con dichiarata buona volontà, sarà piuttosto quello di fare proposte e cercare alleanze perché la Ue cambi politica e riscopra investimenti e politiche del lavoro.

l’Unità 27 Maggio 2014

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