E’ il tredicesimo trimestre successivo con il segno “meno” davanti alla variazione del Pil. Tradotto: sono più di tre anni che il Paese s’inabissa. Senza mai vedere un raggio di luce.
Tre anni di politiche economiche che hanno visto protagonisti altrettanti Governi, con lo stesso, desolante, risultato: Pil in calo, debito pubblico in crescita, meno posti di lavoro, imprese che chiudono. Insomma, “zeru tituli”, per usare le parole dell’allenatore portoghese José Murinho.
I “sacrifici inevitabili”, messi in campo per rispondere alla crisi, non hanno portato ad alcun “secondo tempo” e abbiamo scoperto che non c’è nessuna luce in fondo al tunnel, ma solo disoccupazione, riduzione del valore dei redditi da lavoro e delle pensioni, diminuzione del potere d’acquisto, aumento della povertà. Milioni di persone, in questi anni, hanno perso i livelli di vita raggiunti nel recente passato, altrettanti li hanno visti definitivamente compromessi o in rapido e inarrestabile deterioramento, senza poter invertire la direzione. Ma c’è di più, perché quel che sta avvenendo appare sempre meno congiunturale alla fase recessiva mentre prende progressivamente corpo una profonda trasformazione della struttura economica e sociale. D’altronde, il patto che garantiva solidarietà in cambio del conferimento di quote d’individualità è stato rotto per dare risposte ai mercati, agli attori finanziari, agli operatori di borsa, mentre gli indicatori della disoccupazione, della precarietà, delle iniquità sono stati spenti perché ritenuti soltanto un rimbalzo “tecnico” o, al più, un effetto collaterale.
La tensione politica a governare i processi economici per perseguire i fini generali della società appartiene al passato. Al suo posto la convinzione che i mercati siano in grado di autoregolarsi, perché il massimo che può accadere sono oscillazioni nella produzione, nel Pil e nell’occupazione, che torneranno in equilibrio quando gli stessi mercati adegueranno autonomamente altre grandezze, come i redditi da lavoro o i prezzi.
Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti e viene da chiedersi cosa altro serva per comprendere la necessità di politiche completamente diverse da quelle messe in campo finora, quali ulteriori prove occorrano per comprendere l’urgenza di politiche fondate sull’occupazione, sulla qualità del lavoro e sul rafforzamento dei sistemi di protezione.
Chi è più visionario: chi pensa di poter uscire dalla crisi proseguendo sulla strada attuale o chi ritiene che occorra cambiare completamente i paradigmi che hanno portato alla situazione attuale? E’ su quest’aspetto che Stiglitz, Krugman e altri economisti e premi Nobel, affondano le loro critiche: aver imposto ai cittadini enormi sacrifici sulla base di teorie e scelte politiche che si sono rivelate completamente sbagliate. Di nuovo, in questi anni, c’è stato poco o nulla. E tutto appare in buona continuità con le politiche di Ronald Reagan e Margareth Thatcher, centrate sulla deregolamentazione del mercato, la privatizzazione delle aziende pubbliche, l’alleggerimento della struttura statale e dei sistemi di protezione sociale.
La famosa “deregulation”, cioè l’abbandono del mercato da parte dello Stato, lasciandolo libero di trovare il proprio punto di equilibrio, autoregolandosi, autolimitandosi e autocomponendosi. La promessa di prosperità che faceva da presupposto alle politiche neo liberiste è stata mancata e gli effetti di quell’impostazione si fanno sentire ancora oggi, con il ritiro della politica dall’economia, dalla produzione, dall’occupazione, de-territorializzando i processi economici staccati sempre più dalle grandezze reali dell’industria. Processi che hanno lasciato spazio alle dimensioni finanziarie della ricchezza, senza che queste abbiano necessità di passare attraverso investimenti nelle attività imprenditoriali e industriali. La rottura della relazione tra capitale e lavoro è avvenuta in questo spazio non più presidiato dalla politica, ed è una conseguenza inevitabile.
Come inevitabile è il progressivo distacco dell’economia dal territorio e dalla dimensione nazionale, che di quel legame ha sempre costituito l’aspetto più politico. D’altronde, è dagli anni ’80 che ha preso avvio un processo di progressiva indipendenza dell’economia finanziaria dal palinsesto pubblico e in particolare dallo stato e dalla legge. Un processo che non si è mai arrestato nonostante la crisi. E che, progressivamente, è diventato “insofferenza” per il territorio e per le politiche pubbliche, pretendendo sempre più “mano libera” e rivendicando il potere di rovesciare i rapporti di forza non solo tra capitale e lavoro ma anche tra capitalismo e democrazia. Ed è questo lo scenario inquietante che si pone davanti a tutte quelle economie che, con un eccesso di enfasi, definiamo democrazie avanzate.
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