Lo smembramento del gruppo parlamentare di Sel non è proprio una buona notizia. Non lo è per una formazione che si candidava a presidiare il fianco sinistro di una possibile coalizione di governo e invece si è frantumata trascinando con sé i costi politici (e non solo) che sempre accompagnano gli abbandoni. E non lo è per il sistema politico che di sicuro conserva uno spazio per una forza di sinistra più marcata nel profilo identitario e capace di assorbire spezzoni preziosi dei radicalismi che, nei tempi di crisi, trovano altri interpreti, sovente inquietanti, cui aggrapparsi.
Ma quando alla fuga da un partito si perviene, e con dimensioni così ampie, a nulla vale ricamare su ciò che c’è dietro le scelte dei singoli transfughi, sui contatti avuti chissà con quale emissario. Chiacchiere. Una rottura così lacerante, come quella ancora in corso, si spiega solo con il fallimento di una strategia politica. E ne portano le responsabilità chi esce dal progetto, perché lo avverte come ormai logorato e irriconoscibile al punto da preferire l’addio, e chi intende rilanciarlo ma con minori forze da impiegare nella manovra.
L’assai deludente risultato elettorale del 2013 segnava di fatto l’usura del sogno originario di Sel. Come soggetto politico responsabile, con una netta identità ma senza nostalgia, e anzi con una attenzione strategica verso il socialismo europeo (quando sul tema il Pd ancora nicchiava), Sel coltivava l’ambizione di una sinistra radicale nei principi ma leale nella gestione della vita parlamentare. Per questo, in una età di collasso del sistema e di impressionante volatilità elettorale, ha attratto solo modiche quantità di voto di opinione, quelle prevalentemente cittadine, secolarizzate e colte. In una contesa normale, avrebbe potuto anche incalzare il Pd da sinistra e metterlo in imbarazzo su precarietà, lavoro, rigore, diritti civili (in diverse città ha vinto non a caso le primarie di coalizione). Ma in tempi di caduta del regime dei partiti, Sel non ha incassato il plusvalore della rabbia, della rivolta di masse che si sono orientate presso altri lidi, più chiassosi e incendiari.
La crisi acuta del progetto fondativo veniva confermata anche con la parabola della lista Tsipras. Ha ottenuto (in termini percentuali, almeno) un dignitoso risultato alle europee. E però paradossale, per certi versi del tutto impolitico, è parso il modo della formazione della lista, il suo asse programmatico e lo stile comunicativo, il modo della selezione e gestione delle candidature, il nodo della inopinata dipendenza di organizzazioni politiche sia pure fragili da opinionisti e organi di stampa.
Le difficoltà di Sel sono racchiuse tutte in questo dilemma ineludibile: se accentua il tratto della responsabilità di governo e del dialogo organico con il Pse calpesta il terreno già coltivato dal Pd (e in Europa non ci sono esempi significativi di convivenza di due partiti della sinistra di governo), se accarezza invece il richiamo dell’antagonismo e i rumori della protesta diventa più autonomo dal Pd ma rischia di infrangere ogni ipotesi di confluenza coalizionale (quasi ovunque in Europa ci sono due sinistre ma, si pensi alla Germania, operano senza intrattenere qualsiasi relazione diplomatica tra di loro. Persino in Francia solo il doppio turno mantiene in vita qualche lontano ricordo della disciplina repubblicana).
I dubbi esistenziali che tormentano Sel sono quindi seri, non risolvibili senza un pensiero forte. Con quadri amministrativi rodati, con sindaci di valore, con collegamenti significativi con il mondo sindacale, Sel non ha però mostrato una grande ingegneria organizzativa necessaria per costruire un efficace modello di partito (a lungo ha anzi accarezzato la seduzione della leadership personale, con le fabbriche di Nichi, con le tessere raffiguranti il volto di Vendola). Fin quando brillava la stella del leader, ha potuto anche incassare i frutti di una certa simpatia dei media. Ma quando la copertura dei media rifluiva, e una fortezza organizzativa era del tutto assente, cominciavano i guai per un partito leggero e non strutturato.
A sinistra del Pd c’è uno spazio, in astratto piuttosto ampio (come lo è in Spagna, Germania, Francia), che però nessuna offerta politica è riuscita a conquistare stabilmente dopo l’evaporazione della vecchia rifondazione comunista, e la rovina del movimento giustizialista di Di Pietro. Quest’area vasta, che raccoglieva domande di radicalismo sociale e istanze di intransigenza legalitaria, nel suo nucleo più grosso si è dispersa tra astensionismo, disincanto e persino approdo nel grillismo. È possibile, è realistico, frequentare questo mondo rimasto privo di rappresentanza, e attratto dalle simbologie del populismo trionfante, senza però rompere con una prospettiva unitaria nelle alleanze di governo? È una incognita. Ma non meno arduo è l’interrogativo che accompagna i fuoriusciti. Davvero è pensabile un Pd così elastico e indifferenziato da assorbire in un sol colpo le truppe di Monti e quelle di Migliore?
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