Gli auguri del Presidente del Centro Riforma dello Stato Mario Tronti
99 anni. La quercia Ingrao sfida le intemperie del tempo. I venti della storia, o meglio della cronaca, spirano in senso contrario a tutto quanto Pietro Ingrao ha depositato nel suo pensare e nel suo agire. Pensiero e azione che si riscoprono andando a riprendere il suo passato che non passa: come documentano gli scritti e gli atti, che riemergono dall’Archivio Ingrao, gelosamente custodito dalla Fondazione Crs. I testi delle sue Carte, tematicamente raccolti dal prezioso lavoro intrapreso da Maria Luisa Boccia e da Alberto Olivetti, tornano a circolare, a interrogare, a far discutere. Tornano a ricordare che da quella postazione, e su quella strada, un’altra storia sarebbe stata possibile per questo Paese e per l’Europa.
La quercia Ingrao tuttora ci protegge. E ci rassicura che quelle solide radici niente e nessuno potrà mai sradicare. Esse affondano in una storia più grande, lunga, contrastata e gloriosa, cha va al di là di ognuno di noi, che non è finita, è forse solo interrotta. Riprendere quel filo, riannodarlo alle nuove generazioni, riadattarlo ai tempi nuovi, ai nuovi bisogni, a nuovi soggetti, questo è il compito che il pensiero vissuto di Pietro ci lascia. La sua lunga vita di combattente non domato è un evento simbolico da prendere come modello. L’idea comunista è dura a morire. Questo ci dicono questi novantanove anni. Non sappiamo come e non sappiamo quando: ma l’esistenza di Pietro afferma che, con questa idea, ci dovranno ancora fare i conti i padroni del mondo. Malgrado tutti gli smemorati che sono corsi al loro seguito. Mario Tronti
da L’Unità
di Pietro Ingrao
30 marzo 2014
Il primo incontro diretto con l’Unità lo ebbi il pomeriggio del 26 luglio del ‘43 a Milano. La sera prima, a Roma, Mussolini era stato licenziato dal re. Vivevo clandestino e abitavo in una casa di Corso di Porta Nuova insieme con due compagni operai siciliani, i fratelli Impiduglia, che mi ospitavano e mi difendevano dalla polizia, e un’adorabile ragazza lombarda, unita al maggiore dei due fratelli, di nome Santina, che mi aiutò e protesse nei miei soggiorni segreti a Milano, con una grazia e un coraggio semplice. La notte del 25 luglio era afosa. Nella casa dormivamo tutti un sonno pesante, quando d’improvviso e inatteso entrò Salvatore Di Benedetto, che era un po’ il nostro capocellula e insieme quasi un fratello: sbattè le porte e si precipitò a gridare a squarciagola alla finestra: «A morte Mussolini!».
Saltammo dal letto senza capire. Poi, infilati di furia i pantaloni, ci precipitammo con Di Benedetto nelle strade urlando: «A morte il duce, abbasso il fascismo».
Finimmo nel vortice di Porta Venezia dove una folla impazzi- ta sciamava ed urlava. Più avanti abbracciammo esultanti Elio Vittorini. E fu così tutta la notte, in una scia di gente tumultuante davanti alle sedi fasciste, da cui cadevano e finivano in falò carte, sedie, armadi, gagliardetti, come una scia di roghi. Tutto s’acquietò con l’imbiancarsi del cielo. La gente rifluì nelle case e negli uffici. Io finii con Vittorini e Di Benedetto nella sede della casa editrice Bompiani, dove Elio aveva il suo tavolo di lavoro. Da lì partì la telefonata che fissava per il pomeriggio un camioncino a Porta Venezia.
Alle due ero di nuovo in un enorme corteo senza nome, che sfilò dinanzi a San Vittore chiedendo la liberazione dei prigionieri politici. Poi dal carcere il corteo sfociò ancora a Porta Venezia, e dilagò attorno al camioncino affittato da Bompiani. Riuscii ad arrampicarmi sul tetto dell’auto, dove ci strappavamo da una mano all’altra i microfoni: comunisti, socialisti, anarchici, trotzkisti, repubblicani, e quanti altri non so dire. Conquistato il microfono riuscii a fare un brandello di comizio, che chiedeva la pace subito. L’indomani mattina il Corriere della Sera scrisse che in Piazza del Duomo aveva parlato «l’operaio Pietro Ingrao». E quell’informazione sbagliata dette una prima notizia alla mia famiglia che da mesi di me non sapeva più nulla.
La folla sciamò con gridi di esultanza. E io mi trovai trascinato da Salvatore Di Benedetto nella casa di Vittorini che lambiva Corso Venezia. Il pomeriggio di tardo luglio si faceva improvvisamente quieto, con quelle luci estive che si piegano nel lungo tramonto, preparando l’ombra della sera. Nella casa c’era Celeste Negarville, uno dei dirigenti del Pci che era riuscito a rientrare clandestino in Italia, mentre si avvicinava il crollo di Mussolini.
Nelle nostre goliardate di partito, gli fu appiccicato un nomignolo scherzoso: lo chiamammo il «marchese di Negarville», per la stranezza di quel cognome, e soprattutto per il suo gusto dell’ironia e il successo che aveva tra le donne. Era invece un operaio, e tornava in Italia da un aspro esilio. Mi guardò con un breve sorriso, ed ebbe una battuta scherzosa sul mio «comizio» a Porta Venezia. E mi fu detto che dovevamo preparare il numero dell’Unità sul grande evento. Io fui incaricato di fare la cronaca della manifestazione. Poi, nella casa, ci ponemmo ciascuno al proprio posto di scrittura. E io cominciai a pesare le parole con cui raccontare quella manifestazione, in cui per la prima volta nella mia vita avevo parlato a una massa di popolo di cui sapevo nulla.
Eravamo tutti presi nel nostro compito, quando la porta della stanza si aprì e apparvero due. Io continuai a scrivere. Gente della casa, pensai, compagni sconosciuti. Uno dei due, quasi sorpreso dalla nostra calma, disse due parole che ci lasciarono di stucco: «Siamo carabinieri». In breve ci radunarono. Ci chiesero i nomi. Quando venne il turno mio non sapevo se dare il mio nome clandestino (Vittorio Infantino) o quello vero. Prima di me fu interrogato Negarville: disse quel suo strano nome vero. Tuttavia dissi anch’io il mio nome vero: Pietro Ingrao. I carabinieri arrestarono Elio Vittorini, che figurava come colui che aveva disposto il camioncino per la manifestazione di Porta Venezia, e Salvatore Di Benedetto, che aveva risposto furente alle loro domande: che volevano? C’era o no finalmente la libertà?
La scelta fu di andare a scrivere quel numero dell’Unità in casa di Ernesto Treccani, che ci sembrava protetto da avventure di poliziotti che ancora non avessero capito l’accaduto. Negarville era calmo, persino un po’ pigro, mi sembrava. Ma avevamo appena ricominciato il nostro lavoro di giornalisti neofiti che venne l’allarme: la polizia stava per arrivare anche a casa di Treccani. Ci trasferimmo di corsa alla tipografia Moneta, dove almeno c’era la tutela operaia di fronte a qualsiasi colpo di mano. Negarville era tanto sottile e arguto, quanto lento nella scrittura un po’ prolissa. O forse dovette consultarsi con Roma.
Alla fine l’editoriale fu pronto. Il titolo era lungo, calibrato e ridondante. Ma Negarville rifiutò la nostra sollecitazione che chiedeva un titolo più caldo, più breve. Poco dopo, con urla di evviva, un gruppo di operai ci portò stampato quel giornale a due facciate, che recava un nome famoso, così simbolico in quell’istante. E davvero era per me un inizio. Restai nella redazione segreta di quel giornale che non si sapeva se fosse ormai nella legge o ancora aspramente al bando. C’era anche Gillo Pontecorvo, in casa di Vittorini, quando accadde quella irruzione dei carabinieri? Non lo ricordo bene.
Ad ogni modo nei giorni che seguirono fummo in tre gli addetti a quel foglio, tutto da fabbricare nell’ambiguo interludio che fu l’estate del ‘43. Celeste Negarville dalla Direzione del partito era stato chiamato a Roma. Girolamo Li Causi era il nuovo direttore (se si possono adoperare queste parole così normali per il subbuglio e le sollecitazioni di quella estate rovente).
Nella redazione dell’Unità di Milano eravamo in tre: io, Gillo e Henriette, la fidanzata di Gillo, piombata dalla Francia: una giovane bellezza sconvolgente, venuta a raggiungere di corsa l’innamorato e che sembrava ignorare i rischi terribili che correvano. I testi di quel breve giornale erano composti in tipografie clandestine nell’hinterland di Milano, da cui li andavamo a ritirare per impaginarli in città: così eravamo come una fluttuante impresa, «new labour» prima del tempo. Essenziale in quella segreta combinazione di lavori era la bicicletta. Ne avevamo una sola, ma con una larga e solida piattaforma in metallo dietro il sellino, splendida per poggiarvi ben mascherati i pacchi di piombo della composizione. La «portapacchi» fu per noi una sorta di arnese di guerra.
Noi tre giornalisti clandestini eravamo allora molto attratti dalle forme che prendeva quel foglio ancora clandestino, Gillo ancora più di me. Chiedemmo ad Albe Steiner, cervello finissimo, di ridisegnare la testata dell’Unità, poiché quella del tempo di Gramsci ci sembrava bruttissima e ingombrante. Steiner ne immaginò una nuova, forte ed asciutta nel suo modulo razionalizzante d’epoca. Ci parve bellissima. Invece da Roma ci venne un aspro rimbrotto: come osavamo cam- biare la gloriosa testata di Gramsci, quel nome favoloso che noi, reclute acerbe, solo allora cominciavamo un poco a conoscere? E tuttavia tenemmo ferma la testata steineriana.
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