Per lungo tempo il lavoro è stato il paradigma di una società che faceva perno intorno alla fabbrica e all’ufficio. Un modello di organizzazione sociale riflesso di una pienezza che copriva l’intero ciclo di vita, il cui tracciato essenziale era stato incastonato nel primo articolo della Costituzione: una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Ritmi scanditi, spazi organizzati, sincronie che comprendevano l’attività lavorativa vera e propria ma anche le altre sfere dell’esistenza: la scuola accompagnava il giovane all’età lavorativa, la sanità pubblica si occupava di ridurre i rischi individuali derivanti dalle malattie, le pensioni di anzianità garantivano la sicurezza economica all’uscita dal mondo della produzione.
È su queste premesse che l’Italia è cresciuta fino a diventare uno dei Paesi più ricchi del mondo, dando corpo al suo “ceto medio” e facendolo diventare il principale bacino di approvvigionamento del sistema di welfare: dalla scuola alla sanità, dalle pensioni agli strumenti di sostegno alle famiglie più disagiate. Per oltre mezzo secolo tutto questo è stato il tracciato di una storia di crescita economica, culturale e sociale straordinaria: a livello macro, erano molti più gli italiani che accedevano a livelli superiori di benessere di quanti, già benestanti, accumulavano altra ricchezza. E mentre le disuguaglianze diminuivano, il benessere si diffondeva insieme ai diritti di cittadinanza cui accedevano fasce sempre più ampie di popolazione.
Oggi tutto questo sembra lontanissimo: il lavoro non è più (se non a parole) il fulcro del modello di organizzazione sociale, il sistema di welfare è stato ampiamente rimodulato e non è più in grado di rispondere alla crescita della domanda di protezione sociale. E un fantasma si aggira fra i detriti della “tempesta perfetta”: quello della povertà. Chi diventa povero in Italia ha probabilità maggiori di restarlo per tutta la vita, contrariamente a ciò che accade in altri Paesi avanzati dove la povertà ha caratteristiche più transitorie e meno definitive. E nemmeno il lavoro, che ne ha sempre costituito l’antidoto, è in grado ormai di preservare dai rischi di vedere materializzarsi una condizione che in Italia ha tradizionalmente forme definitive.
Nel complesso, la condizione di povertà riguarda l’11% degli occupati ed è cresciuta sia tra i lavoratori dipendenti che tra gli autonomi, colpendo soprattutto le fasce affluenti del ceto medio, come dirigenti e impiegati. I segnali di peggioramento si rilevano in tutte le ripartizioni geografiche: il 6% nel Nord, il 7% nel Centro e il 26% nel Mezzogiorno. In quest’area, in particolare, vive in condizioni di povertà il 32% delle famiglie di operai, il 24% di quelle con a capo un lavoratore dipendente e il 21% di quelle che hanno come persona di riferimento un lavoratore autonomo. L’Italia è il Paese che, in questi ultimi due anni, ha perso più posizioni in Europa negli indicatori dello sviluppo economico e sociale e l’indice della popolazione a rischio di povertà propone gli scenari più inquietanti proprio per la quota di poveri che dispongono di un reddito mensile fisso. E qui la crisi c’entra, ma fino a un certo punto. Di più hanno contribuito le scelte di politica economica basate su quell’ossimoro che, con una punta di cinismo, è stata chiamata “austerità espansiva”. Scelte che hanno dato forma a nuove traiettorie d’impoverimento, modificato le forme del disagio sociale, spostato l’asse dalla marginalità alla vulnerabilità, vale a dire dall’idea di “povertà cronica” a quella di “processi d’impoverimento diffuso” in cui si è trovata coinvolta una moltitudine di persone cui il lavoro non assicura più i mezzi per una vita dignitosa e il sostentamento necessario. Ed ecco che quindi i working poors, definiti anche “poveri in giacca e cravatta”, rappresentano una delle più drammatiche conseguenze del momento buio che stiamo vivendo.
Una zona grigia di nuove povertà, forse la più rilevante, dal punto di vista economico e sociale, nel momento in cui rappresentano una condizione che ha radici, non nella mancanza del lavoro, ma nel lavoro stesso che non è più in grado di garantire un reddito sufficiente per una vita senza stenti. Se, un tempo, la presenza di anche solo un membro portatore di reddito in famiglia era condizione sufficiente per non cadere in povertà, oggi, con le medesime condizioni, ci si sposta rapidamente sotto la soglia. E questo vale per una famiglia su dieci che stenta ad arrivare alla fine del mese. Il fenomeno non ha “professione”, ma ingloba quasi tutte le categorie: dal pubblico impiego alla piccola e media impresa, dall’edilizia all’artigianato, dal dipendente al lavoratore atipico, dai pensionati ai giovani in cerca di occupazione. Ed ecco che la gerarchia sociale introduce un nuovo tipo di classe, i cosiddetti “penultimi”. Una grossa fetta di popolazione che ha perso speranza e coraggio, che non riesce più a puntare verso l’alto della piramide sociale, ma si sente risucchiata verso il basso e sfiora pericolosamente la soglia di povertà fino a oltrepassarla. Un ceto medio che va scomparendo, quindi, portando alla destabilizzazione degli stabili, con una regressione nella scala sociale fino alla proletarizzazione, fino alla discesa nella sfera del bisogno e nella perdita del benessere, mettendo a nudo, in modo impietoso, lo stato di degradante malessere del Paese.
È un’Italia che aggiunge, ai milioni di disoccupati e cassintegrati, altri milioni che non riescono ugualmente a far fronte alle necessità quotidiane. Le bollette della luce, del gas, le rate del condominio, la tassa della spazzatura sono diventate un incubo: oltre un quarto delle famiglie italiane ha difficoltà a pagarle. Mentre le diseguaglianze (dati Ocse) sono aumentate molto più che in altre economie occidentali: chi stava molto bene adesso sta ancora meglio mentre tutti gli altri stanno decisamente peggio.
Il crollo del ceto medio è il segnale di allarme rosso che suona da Nord a Sud. E’ la povertà dei “non-poveri”, chiamati anche “poveri grigi”, in bilico tra normalità e miseria, precipitati nel mondo del bisogno con percorsi di caduta diversi dal tradizionale accumulo di eventi critici (disoccupazione, problemi di salute, separazioni), come cartelle esattoriali impreviste e persino multe. E in quel corpo sociale che, per anni, ha rappresentato il motore economico dell’Italia e il grande incubatore della fiducia nel futuro, oggi prevale una sofferenza che non avevamo mai conosciuto, un’incertezza che li ha scoperti impreparati ad affrontare i problemi che si sono trovati davanti, senza che qualcuno si occupi veramente di loro.
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