Nel referendum della Catalogna hanno perso tutti
2/10/2017
Sia Madrid che Barcellona cantano vittoria, ma il modo in cui si è svolto il voto di domenica rende più difficile la risoluzione della questione catalana per vie democratiche.
di Federico Petroni
Come da tradizione, anche nel referendum sull’indipendenza della Catalogna, tutte le parti reclamano una vittoria.
Le autorità di Barcellona favorevoli al distacco dalla Spagna sbandierano il 90,1% dei “Sì” con il 95% dei voti scrutinati, a fronte di un magro 7,9% dei votanti contrario alla secessione. Dal canto suo, il premier spagnolo Mariano Rajoy annuncia festoso che lo Stato iberico è riuscito a ostacolare un voto che Madrid ritiene illegale e incostituzionale.
In realtà nel referendum hanno perso tutti, a partire dai due principali attori politici, di cui si è scoperto il bluff.
L’1 ottobre ha messo a nudo la pochezza della strategia di Rajoy. Che nella giornata di domenica ha visto 2 milioni di persone che sono comunque riuscite a recarsi alle urne e ha ricevuto diffuse critiche per la violenza riservata dalla Guardia Civil ai votanti. Il primo ministro spagnolo è andato vicino al suicidio politico, avendo portato il processo di indurimento delle richieste catalane (lungo almeno un decennio) a punti di non ritorno e perdendo al contempo legittimità nei confronti dei suoi alleati europei, che per quanto fossero contrari al referendum non posso aver plaudito alla sua tentata repressione.
La posizione del presidente della Catalogna Puigdemont non è migliore. Come altri imprenditori politici europei dell’indipendentismo, l’attuale leader della Generalitat ha legato i propri destini alla posta massima e ora ha problemi nell’effettuare un passo indietro (ecco spiegato il richiamo alla mediazione europea). Prima del voto di domenica, le autorità catalane si erano dette pronte a dichiarare l’indipendenza anche con solo 1,8 milioni di “Sì”, un terzo scarso degli aventi diritto. Noncuranti della serietà della consultazione stessa: oltre a irregolarità diffuse permesse dalla situazione caotica, circa un quarto delle persone intenzionate a recarsi alle urne (poco più di 2,8 milioni) non è stato fisicamente messo in condizione di farlo. Senza contare il gran numero di contrari alla secessione, che i toni violenti hanno disincentivato a esprimere la propria preferenza.
L’inasprimento delle posizioni rischia di complicare il dialogo e di indurre Madrid ad attivare l’oscuro e mai testato articolo 155 della Costituzione spagnola, che conferisce al governo poteri quasi illimitati nel caso in cui una comunità autonoma attenti all’interesse nazionale.
A perderci è pure l’Europa. La maggioranza delle figure politiche continentali non ha potuto fare altro che condannare sia il referendum sia l’iper-reazione di Madrid, non avendo alcun interesse a sostenere una Catalogna indipendente (in questo senso gli stretti rapporti commerciali fra la comunità autonoma e il continente potrebbero essere un’arma di ricatto nelle mani europee). Nessuno intende alimentare l’incendio degli autonomismi che già divampa o cova sotto la cenere altrove nell’Ue. A incoraggiare la via dell’indipendentismo basta la politica del fatto compiuto condotta, tra mille incertezze, da Barcellona.
LA REAZIONE DELL’EUROPA [di Sergio Cantone]
Per l’Ue il principio di legalità prevale su quello di “legittimità popolare” invocato dal ministro degli Esteri catalano, Raùl Romeva, la settimana scorsa a Bruxelles. Il referendum è nullo perché contrario alla costituzione spagnola e se la Catalogna dovesse secedere dalla Spagna, anche per effetto di un referendum svoltosi in un quadro costituzionale, sarà comunque fuori dall’Ue.
Bene la comunicazione, una volta rotto il fragoroso silenzio sulla Catalogna, ma ora l’Ue dovrà passare alla seconda fase, quella che di solito le costa di più: la politica. Aver lasciato la gestione della crisi catalana al primo ministro conservatore Mariano Rajoy e al nazionalismo catalano in preda al radicalismo avrà un costo politico elevato per tutta l’Europa.
Eppure Bruxelles si è occupata del conflitto etnico più grave dai tempi dell’ex Jugoslavia come se il quadro politico spagnolo (e catalano) fosse quello di prima del 2008. Non si è resa conto che le cure da cavallo imposte dal fiscal compact e da un bail-out mascherato hanno travolto i pilastri della stabilità politico-costituzionale del paese iberico.
La telefonata tra Jean-Claude Juncker e Mariano Rajoy trasforma la questione catalana in una faccenda interna al Partito popolare europeo. Rajoy infatti ottiene la conferma da parte dell’esecutivo comunitario che lui resta l’unico interlocutore, anche se dovrebbe fare un po’ più di attenzione quando decide di utilizzare gli apparati repressivi.
L’Unione Europea non può mediare, essendo la Spagna uno Stato membro. Ci vorrebbe qualcuno che fermasse le istituzioni catalane in procinto di proclamare l’indipendenza. Bruxelles potrebbe chiedere a Rajoy di fare un’offerta che Barcellona non può rifiutare e insistere affinchè, in cambio, la parte catalana rinunci all’indipendenza.
VISTA DAL VENETO [di Giovanni Collot]
Gli eventi della Catalogna sono stati seguiti con particolare attenzione in Veneto. Qui domenica 22 ottobre gli elettori saranno chiamati, insieme a quelli della vicina Lombardia, a pronunciarsi sulla maggiore autonomia regionale. Il governatore Luca Zaia, promotore della consultazione veneta, ha tracciato un parallelo tra i due casi: “In entrambi c’è un popolo che rivendica d’essere protagonista del suo destino, sancendo così il fallimento degli Stati nazionali”. Marcando così la distanza con il leader nazionale del proprio partito, Matteo Salvini, che ha indicato da subito la natura illegale del quesito.
Si tratta di un parallelismo che però è solo apparente e confinato all’uso dell’istituto referendario. Per il resto, sono molte le differenze tra Barcellona e Venezia: infatti, se il referendum catalano era di fatto incostituzionale, quello veneto, per quanto consultivo e non vincolante, verrà realizzato all’interno dell’alveo segnato dall’articolo 116 della Costituzione. Inoltre, lungi dal chiedere l’indipendenza del Veneto, gli elettori si limiteranno a votare sulla molto più prosaica richiesta di ulteriori forme di autonomia.
Nonostante le profonde differenze di fatto, la Catalan connection del Veneto ha comunque un importante significato simbolico che aiuta a gettare luce sulla frastagliata galassia autonomista/indipendentista: lungi dall’essere un blocco coerente e unitario, i sentimenti separatisti trascendono le divisioni politiche tra destra e sinistra. Oltre a Zaia, si sono schierati a favore della Catalogna – con tanto di delegazione a Barcellona – gli indipendentisti di sinistra di Sanca Veneta, che si muovono sul solco di partiti di ispirazione socialista e regionalista di più antica tradizione come lo Scottish National Party o i baschi di EAJ. Ma anche movimenti di ispirazione più identitaria e nazionalista, in aperta polemica con la Lega di Zaia in quanto il referendum, che mira ad aprire un negoziato con il governo centrale invece che uno strappo, viene ritenuto troppo timido. Dall’altro lato, all’interno della stessa maggioranza di governo c’è chi, come l’assessore regionale all’Istruzione Elena Donazzan, rimarca la differenza del caso veneto con quello catalano e prende le parti di Madrid.
La fratellanza con la Catalogna deve per ora leggersi come uno strumento politico per nobilitare un referendum che, meno identitario e più burocratico, avrà quasi sicuramente conseguenze meno radicali di quanto visto in Spagna. Ciononostante, nel clima surriscaldato di queste settimane, sembra ancora presto per escludere che le urne venete si possano trasformare in altrettanti piccoli vasi di Pandora.
LA CATALOGNA PER GLI USA [di Dario Fabbri]
Gli Stati Uniti non hanno ufficialmente condannato il referendum catalano. Trump s’è personalmente schierato in favore dell’unità spagnola, ma il dipartimento di Stato ha comunicato d’essere pronto a lavorare sia con il governo centrale sia con quello di Barcellona.
Al di là delle dichiarazioni, ciò che conta è che in Europa – ovvero nel continente che è nell’assoluta disponibilità degli Stati Uniti e che da questi dipende totalmente per la propria sicurezza – continuano a proliferare indipendentismi e autonomismi vari. Dalla Catalogna, alle Fiandre, alla Scozia.
Un fenomeno in atto dalla fine della guerra fredda, che Washington non intende arginare. Atteggiamento assai utile per comprendere lo stato dell’egemonia americana. Perché il disinteresse della superpotenza è figlio dell’inattaccabilità che questa percepisce.
In piena guerra fredda, quando temeva concretamente che il fronte occidentale potesse essere inghiottito nel blocco sovietico, l’America non avrebbe mai consentito a singole regioni di coltivare sogni di indipendenza. Nei momenti di emergenza o di ostilità, l’egemone necessita di trattare con un numero ridotto di soggetti e non può tollerare la dipartita di pezzi di territorio che servono ai suoi clientes per controllare e difendere meglio il loro territorio.
Il silenzio degli Stati Uniti, oggi come all’inizio degli anni Novanta, ci segnala invece la sicurezza di chi pensa di non possedere nemici insidiosi, di chi guarda con straordinaria serenità alla sfida portata sul territorio europeo dalla Russia e, parzialmente, dalla Cina.
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