Si è conclusa la prima tappa della marcia elettorale che ci attende, da qui fino all’autunno. Dopo il referendum sulle trivelle, infatti, all’inizio di giugno avranno luogo le elezioni amministrative, in alcune città fra le più importanti. Roma, Milano, Torino, Napoli. E in altri tre capoluoghi di Regione: Bologna, Cagliari e Trieste. Infine, in autunno si svolgerà il referendum sulla riforma costituzionale approvata in via definitiva dal Parlamento una settimana fa.
Il premier, Matteo Renzi, ne ha fatto il banco di prova definitivo per il proprio governo, ma, prima ancora, per se stesso. In fondo: per la propria leadership. Ogni passaggio elettorale assume, però, lo stesso significato. Diventa, cioè, una verifica del consenso verso Renzi e la sua maggioranza.
Il premier, d’altronde, non ha fatto nulla per evitarlo. Al contrario. Anche questo referendum è stato puntualmente orientato in questa direzione. Non tanto per decidere sulle “trivelle”, ma per esprimere dissenso oppure consenso verso Renzi. Partecipare al voto significava, dunque, sfiduciare Renzi. Al contrario: astenersi – in subordine: votare no – gli avrebbe fornito sostegno. Conferma.
Ed è ciò che, in effetti, è avvenuto. Perché oggi, l’unico argomento di cui si discute riguarda Renzi. Non certo le trivelle. Eppure, se si valutano i risultati con qualche attenzione, l’importanza delle “trivelle” appare evidente. Basta considerare la geografia della partecipazione elettorale. I livelli più elevati di affluenza si osservano, infatti, nelle aree maggiormente interessate al problema. Cioè, alle trivellazioni. In particolare, la Basilicata (l’unica dove sia stato superato il quorum del 50% degli elettori aventi diritto), quindi, la Puglia e il Veneto.
LE TABELLE
Fra le regioni che hanno promosso il referendum, emergono livelli di partecipazione molto elevati anche in Molise e nelle Marche. Tra le altre: in Abruzzo ed Emilia Romagna. In altri termini: lungo la fascia adriatica. Tuttavia, se ragioniamo sull’astensione “aggiuntiva” rispetto al referendum del 2011, che riguardava “l’acqua pubblica”, si delinea una mappa diversa. Con una caratterizzazione politica più specifica. Anche il referendum del 2011 aveva una connotazione “ambientalista”. Per questo è significativo che il peso dell’astensione, nel referendum sulle trivelle, cresca, in misura particolare, nelle “zone rosse”. Ma soprattutto in Toscana. La Regione di Renzi. E ciò conferma come le “trivelle” e l’ambiente siano divenuti un argomento, in qualche misura, strumentale. Ricondotto progressivamente all’obiettivo prioritario di “trivellare Renzi”.
A questo proposito, il verdetto della consultazione appare chiaro. Non solo perché alle urne si è recata una minoranza (benché rilevante): poco più di un terzo degli elettori. Ma perché è difficile riassumere per intero la partecipazione al voto sotto le bandiere dell’anti-renzismo. Lo suggeriscono i dati di un sondaggio condotto da Demos circa una settimana prima del voto. Certo, fra gli elettori del M5s e dei partiti a Sinistra del PD la quota di coloro che si dicono certi di votare risulta particolarmente elevata. In entrambi i casi, poco sotto il 50%. Mentre fra gli elettori degli altri partiti l’intenzione di partecipare al referendum appare più ridotta.
In particolare, nel PD non raggiunge il 30%. Per questo è azzardato interpretare l’affluenza degli elettori come un indice di “sfiducia” nei confronti del governo e del premier. D’altra parte, tra coloro che, nei giorni scorsi, si erano detti certi di recarsi alle urne, il grado di “fiducia” nei confronti del governo risulta intorno al 30%. Dunque, meno, rispetto alla media degli italiani (39%). Ma non troppo.
Per questo lascia perplessi la traduzione direttamente politica e “personale” che viene data al risultato del referendum. Non da una parte sola, peraltro. Perché Renzi e, in modo ancor più esplicito, i “renziani”, hanno rovesciato, a proprio favore, questa impostazione. Con l’effetto, francamente paradossale, di trasformare l’astensione in consenso. Traducendo il dato della non-partecipazione in una misura del sostegno al governo e al premier.
Ovviamente, questa impostazione rischia di produrre esiti singolari. Trasformando un cittadino, qualsiasi cittadino, interessato a fermare la trivellazione nella costa davanti alla sua città in un anti-renziano, tout-court. E un elettore, anche se ferocemente anti-governativo, ma impossibilitato a partecipare al voto, per motivi di forza maggiore, oppure semplicemente, dis-interessato al problema, in un partigiano di Renzi. Ma mi sorprende – e un po’ mi preoccupa – che lo stesso premier possa vedere nell’astensione – anche se in un caso specifico come questo – una risorsa. Una fonte di consenso politico. Personale.
Personalmente, osservo con qualche inquietudine questa “deriva” del dibattito politico. Che, peraltro, talora in contrasto con le stesse intenzioni dei protagonisti, trasforma e ed estremizza ogni confronto in senso “personale” e “referendario”. In altri termini, riassume la nostra vita politica in un lungo referendum pro o contro Renzi. Che si snoderà da qui in avanti. Non solo nei prossimi mesi.
Se questa idea fosse fondata, allora sarebbe meglio non nascondere la testa sotto la sabbia. Perché significherebbe che, con il contributo attivo del fronte anti-renziano, ci stiamo avviando verso un “governo personale” del premier. Come ho già scritto in passato: in un premierato – per non dire in un presidenzialismo – “preterintenzionale”. Al di là delle intenzioni: nei fatti e nella pratica. A maggior ragione se si tiene conto degli effetti di “semplificazione” prodotti, nei processi decisionali, dalla riforma costituzionale e dalla nuova legge elettorale.
Personalmente, non ho pregiudizi. Ma se si va verso una democrazia “immediata” e “personalizzata”,
allora, forse, sarebbe meglio tenerne conto per tempo. E orientare in quella direzione la “ri-forma” della Costituzione. Senza riscriverla e ri-costruirla un pezzo dopo l’altro. Una spinta dopo l’altra. Un referendum dopo l’altro. In modo preter-intenzionale.
19 Aprile 2016
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