La decisione di Napolitano ormai è presa e nemmeno l’ultimo tentativo di Matteo Renzi è riuscito a fargli cambiare idea: mercoledì il capo dello Stato, consegnata la lettera di dimissioni alla presidente della Camera Boldrini, potrà recarsi nella sua residenza privata che, per inciso, non dista molto dal Quirinale. Domani è previsto l’ultimo atto da presidente: il saluto ai dipendenti della struttura presidenziale e al reggimento dei Corazzieri nella caserma del corpo.
Napolitano ha ricevuto al Quirinale sia il presidente del consiglio che il ministro delle riforme. Renzi gli ha parlato della manifestazione di Parigi a cui aveva partecipato. La Boschi gli ha illustrato il timing della prossima settimana promettendo l’approvazione della legge elettorale e della riforma del Senato per il 23 o al massimo l’inizio della settimana successiva. C’è una richiesta dietro questa assicurazione? Un modo per chiedere al presidente della Repubblica qualche altro giorno di tempo prima delle dimissioni? La richiesta comunque non sarà esaudita: Napolitano non vuole legare le sue dimissioni all’approvazione delle riforme di Renzi. L’elezione del successore di Napolitano si lega quindi inevitabilmente al percorso delle riforme con i problemi che si possono immaginare.
Caduta la pretesa di Berlusconi di posticipare l’Italicum all’elezione del nuovo capo dello Stato, restano i problemi delle minoranze interne sia del Pd che di Forza Italia. La sinistra democratica è sempre più sospettosa delle reali intenzioni del premier soprattutto dopo l’incidente del comma 19 bis al decreto fiscale che stava per fare un bel regalo di natale a Berlusconi. La minoranza fittiana di Forza Italia non vuole che il patto del Nazareno resista e se non resiste Berlusconi deve dire addio all’ultima debole speranza che gli resta: la riabilitazione politica. La situazione è oltremodo complessa. Venerdì si riunisce la direzione del Pd. saranno due settimane di fuoco.
12 01 2015
(di Gianluca Luzi) Repubblica
Il giorno delle dimissioni di Napolitano
di Fabio Germani
giorgio_napolitanoMolti dei quali lo hanno voluto ancora al Colle, sono gli stessi che nel 2006 non lo votarono sebbene “persona stimabile”. Perché un comunista, in definitiva, resta un comunista, anche se migliorista. “Il nostro elettorato non capirebbe”.
Giorgio Napolitano, già presidente della Camera e ministro dell’Interno, fu eletto presidente della Repubblica la prima volta il 10 maggio 2006 alla quarta votazione con 543 voti e il 15 giurò da capo dello Stato. Il primo esponente proveniente dal Pci a salire al Quirinale, nel corso del suo settennato, da spauracchio sinistrorso ben presto diventò l’uomo delle istituzioni. Ruolo che però ha dovuto difendere con gli artigli e con i denti per via dei consueti strappi e delle successive ricuciture, soprattutto con Berlusconi. “La Consulta è politicizzata, è di sinistra. E il presidente della Repubblica sapete da che parte sta”, attaccò nel 2009 dopo la sentenza della Corte costituzionale sul lodo Alfano. “Già da ministro fui uomo delle istituzioni, non di parte”, rispose alcuni giorni più tardi Napolitano. Per Beppe Grillo, Napolitano è a lungo Morfeo. Per tutti gli altri, almeno per gli strenui difensori dell’antiberlusconismo, Napolitano “è un genio della politica” (cit. Eugenio Scalfari). “Genio della politica” lo diventò, in particolare, quando nel novembre del 2011 guidò la transizione dal governo Berlusconi, non ancora sfiduciato, ma ormai privo di una maggioranza certa (e preso d’assalto dagli scandali che chiamavano in causa proprio l’ex premier oltre che dallo spread), all’esecutivo tecnico di Mario Monti.
Una mossa che gli valse le attenzioni del New York Times, il quale lo soprannominò Re Giorgio. L’inquilino del Quirinale preferì percorrere una strada immediata – l’Italia, era il pensiero condiviso da molti, necessitava di una medicina amara che le permettesse di riacquistare internazionalmente la credibilità perduta –, destinata tuttavia ad affievolirsi a causa delle tante misure lacrime e sangue che l’esecutivo tecnico avrebbe poi imposto. Tutt’altra gestione della crisi di governo rispetto a quella del 2008 quando, rimesso il mandato esplorativo di Marini a seguito della caduta di Prodi (due nomi tornati in auge nel 2013 per la successione a capo dello Stato), sciolse le Camere dopo 22 mesi dal suo approdo al Colle. Non dissimile, in questo senso, il burrascoso passaggio di consegne, nel febbraio 2014, dal governo Letta – esecutivo di larghe intese figlio del tentativo fallito di Bersani (allora segretario del Pd) di crearsi una maggioranza in Parlamento e dell’incertezza politica post voto – al governo Renzi.
Ma è il passaggio da Berlusconi a Monti, forse, la croce e delizia della sua permanenza al Quirinale. Almeno questo suggerì il Rapporto Italia 2013 dell’Eurispes che, a fronte di una sfiducia generalizzata verso le istituzioni, rilevò nei suoi riguardi un calo di consensi: il 44,7% di “fiduciosi” – di cui il 19,3% “molto” e il 25,4% “abbastanza” – contro il 62,1% del 2012.
Di certo c’è che Napolitano, come già i suoi predecessori, solo che in maniera talvolta più netta e decisiva, non si è mai sottratto ad interventi che, di fatto, hanno tracciato un solco tra dettato costituzionale ed interpretazione evolutiva dei poteri. A dicembre 2014, quando ha confermato “l’imminente” fine del mandato presidenziale in occasione degli auguri di Natale al corpo diplomatico, ha spiegato le motivazioni che lo hanno spinto nei mesi precedenti elogiando “l’opera portata avanti dal presidente Renzi e dal governo, un coraggioso sforzo per eliminare alcuni nodi e correggere mali antichi che hanno frenato lo sviluppo del Paese e sbilanciato la struttura della società italiana e del suo sistema politico. Un’opera difficile e non priva di incognite, ma senza alternative per chi, come noi, crede nelle potenzialità di questo Paese, nel ruolo che deve rivestire in Europa, negli ideali che vuole portare e nella missione di pace nel mondo”.
Tanti i temi cari a Napolitano. Dalla cittadinanza da estendere ai bambini nati in Italia da immigrati stranieri (“Negarla è un’autentica follia, un’assurdità. I bambini hanno questa aspirazione”) alle condizioni disastrose delle carceri (“Ho più volte, anche molto di recente, colto ogni occasione per denunciare l’insostenibilità della condizione delle carceri e avrei auspicato che quegli appelli fossero stati accolti in maniera maggiore”), passando per la legge elettorale.
Da presidente della Repubblica ha affrontato nel 2011 un tour de force per le celebrazioni del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia e, come Pertini in Spagna nel 1982, ha esultato per il trionfo in Germania della nazionale di calcio ai Mondiali del 2006. Di lui, Obama disse durante un incontro a Washington: “È un leader lungimirante, con una visione aperta al futuro e straordinario per l’Italia e l’Unione europea”. In tanti lo volevano ancora al Colle, lui no: “Francamente non credo che sarebbe onesto dire: ‘State tranquilli, fino all’età di 95 anni io posso fare il presidente della Repubblica’. Insomma, la carta di identità conta…”.
Le cose presero invece una piega diversa. Saltò Marini alla prima votazione. Saltò Prodi alla quarta. E saltarono altre teste. Napolitano, implorato dalle forze politiche, venne rieletto al sesto tentativo presidente della Repubblica sabato 20 aprile 2013 con 738 voti (ben oltre il quorum fissato a 504). Era la prima volta nella storia repubblicana. “Mi muove in questo momento il sentimento di non potermi sottrarre a un’assunzione di responsabilità verso la nazione, confidando che vi corrisponda un’analoga collettiva assunzione di responsabilità”. Un’assunzione di responsabilità “a tempo”, che lo ha accompagnato fino alla conclusione del semestre di presidenza italiana dell’Ue. Poi le dimissioni, il 14 gennaio 2015.
“L’Italia sia unita e serena”.
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