«Il futuro è solo l’inizio», recitava due settimane fa lo slogan della Leopolda renziana, chissà dunque se è stata solo una bomba d’acqua autunnale o l’annuncio di una nuova stagione quanto accaduto in Parlamento alla fine della settimana.
Parlamento svuotato, Parlamento esautorato mai come in questa legislatura, perché mai era successo nella storia che i leader dei quattro partiti più forti fossero extra-parlamentari: Matteo Renzi, Beppe Grillo, Silvio Berlusconi, Matteo Salvini. Ma, nonostante questo, a Costituzione vigente, come si dice, tocca ai deputati e ai senatori l’approvazione delle leggi (la Stabilità, il pacchetto giustizia) e le nomine istituzionali: il Csm, la Corte costituzionale. E il Quirinale.
La legislatura inaugurata il 15 marzo 2013, dopo il voto schock di febbraio, si è retta finora su un doppio dogma: mai un accordo con gli altri partiti (e con il Pd) del Movimento 5 Stelle, vero vincitore delle elezioni, obbligo di accordo del Pd con il restante campo del centrodestra nell’impossibilità di poter contare sul dialogo con il movimento di Beppe Grillo. Una legge ferrea che finora ha portato a un’inevitabile conseguenza: il potere di ricatto del partito di Berlusconi (e quello del partitino di Alfano), rendita di posizione, la chiamano i politologi, se una metà del campo è inutilizzabile conta chi nell’altra metà riesce a occupare quella zona (micro-zona, a volte) che fa la differenza. Così era nella Prima Repubblica, con la Dc impossibilitata ad allearsi con i comunisti la rendira era stabilmente occupata dal Psi di Bettino Craxi che faceva il pieno degli incarichi e delle poltrone.
Fu allora che Giulio Andreotti coniò la teoria dei due forni: se il forno socialista mi fa pagare caro il pane, perché non fornirsi anche dal forno comunista, almeno quando si parla di maggioranze istituzionali e non di maggioranze governative? Chissà se Renzi ci ha pensato. L’ex Bimbaccio di Firenze si presenta come uomo del futuro, ma in Parlamento muove le sue pedine con la scaltrezza degli antichi maestri del passato. Il più sveglio a fiutare che qualcosa stava cambiando è stato in M5S il vice-presidente della Camera, ragazzo veloce nell’apprendere e nel cambiare gioco. E così su una delle due nomine alla Consulta che attendevano da mesi si è creata per la prima volta una maggioranza Pd-M5S alternativa a quella del Patto del Nazareno. Patto oggi paurosamente a rischio. Anche perché i parlamentari di Forza Italia sono allo sbando e lì, vistosamente, non comanda più nessuno.
Un fatto nuovo che supera i dogmi del passato. Ora il Movimento è in campo e il Pd non è più costretto ad allearsi con Berlusconi (non ha più neppure l’alibi di doverlo fare perché i grillini non dialogano, però). La fine dell’auto-emarginazione di Grillo e dei suoi, se dovesse resistere alle prossime nuove, è potenzialmente dirompente. La sostituzione del Patto del Nazareno con il Patto dell’Ebetino, come lo ha già chiamato stizzito il “Giornale” che finora ha tifato per Renzi.
Un patto che già da ora condiziona pesantemente la partitissima che si sta giocando in modo sotterraneo. La posta è il Quirinale. Se M5S si fosse mosso un anno e mezzo ora al Quirinale ci sarebbe Romano Prodi che era nella lista dei nomi votati dalla Rete. E nei prossimi mesi? Il futuro è solo l’inizio.
Marco Damilano
l’Espresso
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