La crescita economica oltre l’austerità di Fabio Germani (tmag)

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È stata, questa che si sta per concludere, la settimana dei paesi ribelli. Per la verità di un solo paese ribelle, la Francia, che ha detto chiaro e tondo, con buona pace di Angela Merkel e di Bruxelles, che non rispetterà nel 2014 il parametro del 3%, raggiungendo un deficit al 4,4% del Pil. Come hanno reagito gli altri, in particolare Matteo Renzi in visita a Londra nella giornata di giovedì, è chiaro: noi rispetteremo i vincoli, ma la Francia ha il diritto di decidere per sé. Un chiaro segnale alla Germania e alla cancelliera Merkel che al solito aveva invitato i partner a rispettare gli obblighi e a non abbassare la guardia dinanzi alla crisi economica.
Parigi parte da un assunto in fondo semplice: il deficit sarà ridotto più lentamente del previsto a causa delle circostanze economiche. Che tradotto in altri termini equivale ad annunciare senza troppi fronzoli lo stop al rigorismo eccessivo e alle politiche stringenti degli ultimi tempi. Intervistato dalla CNN, Renzi ha poi ribadito un concetto che è ormai un vero e proprio cavallo di battaglia: “Il limite del 3% è antiquato”.

In un contesto di “vacche magre” come quello attuale, rispettare appieno determinati vincoli – adottati all’inizio degli anni ’90 e rinvigoriti dai recenti accordi, su tutti il fiscal compact – significa procedere con il freno a mano tirato. Perdono cioè di consistenza le motivazioni che spinsero i protagonisti dell’epoca a stabilire determinati parametri. Il tetto del 3% al deficit/Pil è strettamente legato al rapporto debito/Pil che andrebbe mantenuto al 60%, ovvero la soglia media in Europa nei primi anni ’90. Era un fatto di meri calcoli. Poiché la crescita nominale si attestava all’incirca al 5% e l’inflazione al 2%, i debiti potevano crescere fino al 3% per non superare il 60% strutturale. Il problema, ora, è che nel frattempo la crescita è diminuita (in Italia l’economia è stagnante da molti anni, ad esempio) e in questo senso i leader (non tutti, si intende) rivendicano l’esigenza di sforare, anche un minimo che fosse, il fatidico tetto del 3%. Peccato che, nero su bianco, non sia possibile nel lungo periodo e noi stessi dovremmo sapere quanto non sia impresa facile rientrare entro i parametri previsti. Sia beninteso che il clamore attorno alla Francia nasce in virtù dell’evidente cambio di rotta rispetto all’era Sarkozy, ma altri paesi come Irlanda, Spagna e Portogallo superano di gran lunga il 3%. In tale segmento va inoltre scissa la componente “spesa” da quella “investimenti”, laddove la prima va tagliata se necessario (sprechi, capitoli obsoleti) mentre la seconda incentiva la crescita. Tuttavia per un paese in ritardo, che ha bisogno di riforme strutturali come il pane, è davvero un compito proibitivo non oltrepassare la soglia di Maastricht.

Per rendere l’idea, non a caso la nota di aggiornamento al Def, presentata pochi giorni fa dal governo, rivede tutti gli indicatori economici al ribasso. E per quanto riguarda le previsioni, l’Istat osserva che “continua la fase di debolezza ciclica dell’economia italiana che si accompagna al rallentamento dell’area euro”. “Il deterioramento dei ritmi produttivi – aggiunge l’Istat nella consueta nota mensile – riflette la carenza di domanda interna che colpisce soprattutto gli investimenti”.

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