Il Partito democratico non rischia la rottura per il timore di qualcuno di «morire socialista» ora che è approdato ufficialmente nel Partito socialista europeo. E neppure per il timore di qualcun altro di «morire democristiano» ora che Renzi ha conquistato Palazzo Chigi e sconfitto l’ultima generazione di dirigenti nata nel Pci. Sul piano identitario il Pd è più solido di quanto non pensino molti dei suoi stessi esponenti. Nasce dall’Ulivo, ma in realtà le sue radici affondano ancor prima nella storia repubblicana. È oggi il solo partito nazionale e, nel bene come nel male, così è percepito dai cittadini. Ha grandi responsabilità verso l’Italia: non può andare all’opposizione di se stesso. Costituisce l’albero maestro di qualunque ipotesi di sinistra, e le stesse componenti più radicali che si stanno radunando nella lista Tsipras non possono che guardare al Pd come interlocutore necessario se non vogliono scivolare nello spazio dell’alterità totale e anti-sistema ora saldamente presidiata da Grillo.
Ma il Pd non è affatto immune da rischi. Nell’impresa in cui si è gettato si gioca comunque l’osso del collo. Non è questo un ordinario tentativo di governo della crisi. Non c’è più nulla di ordinario con queste cifre di decrescita, con questa morìa di imprese, con questa sofferenza sociale, con questa domanda di lavoro che non trova risposte, con queste politiche sbagliate a Bruxelles. Siamo come in un dopoguerra. E l’opera di ricostruzione nazionale deve avere l’idea di un nuovo sviluppo, ma al tempo stesso anche una seria politica costituzionale per rianimare e riformare un sistema democratico vicino al collasso. Questa capacità guidò l’Italia dopo la Liberazione.
Ecco, nella connessione tra ricostruzione economica, cambiamento in Europa e ricostruzione democratica, il Pd si gioca la sua stessa esistenza. E se non fosse capace di affrontare la questione democratica, che non è secondaria o sovrastrutturale rispetto ad ogni ipotesi di rilancio e di innovazione del Paese, il Pd potrebbe anche crollare. Siamo a un bivio. L’alternativa è se affrontare il governo della crisi costruendo un nuovo, vitale circuito democratico oppure se accettare la deriva leaderista e populista. Se rianimare, con partiti rinnovati, trasparenti, contendibili, il sistema parlamentare oppure assecondare la spinta anti-partitica e anti-parlamentare. Un Pd che rinunciasse alla sfida della democrazia perderebbe la ragione sociale. Non è vero che i tempi stretti ci impongono la scorciatoia autoritaria dell’uomo forte. È vero invece che è in atto già da tempo un trasferimento di poteri dalle istituzioni rappresentative ad entità esterne, cioè poteri finanziari, tecnocrazie, oligarchie, istituti internazionali. E che questo processo è esattamente una delle ragioni del nostro declino.
Le questioni istituzionali che il Parlamento sta affrontando non sono allora la ricreazione dei politologi e dei perditempo. Sono un pezzo decisivo del progetto di ricostruzione. Non solo il premier Renzi, ma l’intero Pd si sta giocando la faccia. La legge elettorale è una questione seria, che non può considerarsi conclusa per il solo fatto che Renzi e Berlusconi abbiano trovato un accordo di base. E non c’è soltanto la legge elettorale. La riforma del Senato e quella del Titolo V ridisegneranno la forma di Stato e di governo: il vuoto di contenuti che ancora oggi accompagna questi temi è preoccupante. Ma il compito della legislatura va ancora oltre. Bisogna costituzionalizzare i partiti, altrimenti la crisi di fiducia e di credibilità che li ha travolti nel ventennio passato, diventerà irreversibile. Bisogna attuare finalmente l’articolo 49. L’ha detto ieri molto bene il presidente del Senato Grasso: come si può pensare di affrontare un impegno costituente di questa portata senza garantire nei partiti – cioè negli strumenti veri della democrazia dei cittadini – la trasparenza dei bilanci, le regole di democrazia interna, la parità di genere, una legge sui conflitti di interessi, le incompatibilità, il divieto dei doppi e tripli incarichi? I partiti padronali e patrimoniali hanno distrutto le istituzioni e ci hanno spinto a ridosso di un presidenzialismo straccione, evocato ma non dichiarato.
O il Pd riuscirà a rompere questo schema, o non ce la farà neppure a rilanciare l’economia e la società. I leader servono – oggi ancora più di ieri – per affermare politiche, progetti di cambiamento, stagioni nuove. Ma non sono il surrogato della democrazia. Ne sono uno strumento. Ieri alla Camera è stata una giornata triste. L’Italicum (ancora in una versione simil-Porcellum) sta passando senza modifiche di sostanza. Una volta ridotta la validità della legge alla sola Camera, c’è un tacito accordo a riesaminare il merito in Senato. Persino l’emendamento sull’equilibrio di genere incontra pesanti veti. Addirittura è stata approvata la norma che consente ai partiti più forti della coalizione di «rubare» i voti dei partiti minori alleati che non superano lo sbarramento. Una simile mostruosità serve esattamente a confermare il bipolarismo coatto e le coalizioni lunghe, che nella «seconda Repubblica» sono state armi per demolire i partiti, per incentivare il trasformismo, per trasformare la politica in un teatrino di leader impotenti. Nel sostenere il governo, il Pd deve dare una nuova prospettiva al suo essere partito. Deve creare anche fuori da sé la convenienza a costruire partiti nuovi, ma democratici e autorevoli nelle istituzioni. Se si arrende, se rinuncia ad essere partito, ha già perso.
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