Li chiamano neet, acronimo inglese di Not (engaged) in Education, Employment or Training.
Giovani e giovanissimi che non lavorano, non studiano, non si formano. In Italia sono 3,8 milioni. Un esercito di cui fanno parte 400mila laureati e 1,8milioni di diplomati. Il titolo di studio è un “pezzo di carta” che non gli ha aperto le porte del mercato del lavoro, né quelle della vita. Non che non avessero progetti, tutt’altro. Ma i sogni sono materia fragile quando ci si sente dire “lei è troppo qualificato per questo lavoro”. Gli era stato detto che lo studio li avrebbe resi competitivi. Una promessa che è stata mantenuta sì, ma solo fuori dai nostri confini.
In Italia, infatti, gli occupati con diploma o laurea, tra il 2004 e il 2013, sono diminuiti del 20%. E, nel frattempo, i neet con analoga scolarizzazione sono aumentati del 65%. I migliori, e quelli che possono, emigrano verso altri Paesi. Esportiamo talenti. O cervelli, come si dice oggi. Il 28% dei nostri laureati lascia l’Italia appena conclusi gli studi, più del doppio di dieci anni fa, quando i laureati emigranti erano il 12% del totale.
Nel 2004, i giovani che avevano un lavoro erano 7,7milioni, oggi sono 5,3milioni. In pratica, un posto di lavoro su tre non c’è più. E con il lavoro è sparita qualsiasi prospettiva di autonomia. Il numero di giovani che non lavorano e non studiano continua a crescere, insieme a quello di quanti continuano a vivere con i genitori: +37%. Altro che “bamboccioni”. Sono “giovani senza”: senza un lavoro, senza speranza, senza autonomia, senza prospettive, senza fiducia. Specchio di un Paese dove gli ascensori sociali non funzionano più e dove il grande invaso del ceto medio ha rotto gli argini riversandosi verso la fascia di povertà.
In Europa siamo terzi per quota di neet. Ci precedono solo Bulgaria e Grecia. Va meglio di noi anche la Spagna, che tra le economie avanzate è la meno generosa con i giovani, ma evidentemente offre qualche prospettiva in più rispetto al nostro Paese. Neet è un nome che la dice lunga sulla biografia dei giovani, visto che non definisce un’identità positiva ma ciò che non si fa (non lavorano e non studiano) e ciò che non si è (né giovani, né adulti).
A contribuire alla “generazione senza” sono state anche le trasformazioni profonde che hanno riguardato il mondo del lavoro, dove sono aumentate le opzioni lavorative ma diminuite le probabilità di trovare un’occupazione adeguata alla propria formazione e stabile nel tempo. In pochi anni è cresciuto il numero dei luoghi dove si lavora e sono calate le sincronie legate ai giorni e agli orari di attività. La lista delle professioni si è allungata e si è frazionata, ma le prospettive di carriera legate alle competenze si sono fatte più difficili. I rapporti di lavoro sono diventati meno durevoli (data la crescita dei contratti a tempo determinato e il calo di quelli a tempo indeterminato) meno uniformi (poiché l’ambito dei contratti si è fatto più circoscritto) e condizionati da uno sterminato sistema di riferimenti e parametri. Il punto di ricaduta è stato un crescente stato d’indeterminatezza e precarietà che si è riflesso anche nei progetti di vita individuali diventati più instabili e discontinui. Per i “giovani senza” conta solo il presente, intorno al quale si dispone un’esistenza frammentata, dove il passato e il futuro non sono conseguenza uno dell’altro, ma elementi sconnessi e scoordinati, che offrono una socialità imperfetta e provvisoria. Alla fine, la vita stessa è vissuta come una serie di momenti paralleli che non costituiscono un progetto. Perché progettare significa selezionare nel presente ciò che è coerente con le proprie esperienze pregresse, con le attese e gli obiettivi futuri.
Per i giovani il futuro non è più una frontiera, un territorio da conquistare, com’è stato per le generazioni precedenti, ma un orizzonte opaco e incerto come le loro vite. Prevale la paura che ogni obiettivo possa trasformarsi in un insuccesso, tanto più doloroso quanto più inizialmente coinvolgente, mentre sembra crescere una nuova forma di malattia sociale: la rassegnazione. Nemmeno i progetti di vita individuali, quando ci sono, appaiono sufficienti a restituire significato al senso d’indeterminatezza che avvolge i destini dei giovani.
Da un lato sono indotti ad attivarsi per rincorrere le proprie aspirazioni, dall’altro sono smarriti e vivono un’incertezza che appare come una rinuncia ai propri sogni.
Uno smarrimento che si esprime anche nel progressivo allontanamento dai valori istituzionali, dalle radici di memorie comuni, dai patrimoni condivisi della convivenza civile. Un distacco che si colora d’insofferenza – quando non addirittura di ostilità – in un crescendo di contenuti e toni, quanto più si accompagna a disconoscimenti e incomprensioni da parte delle famiglie e delle istituzioni. Giovani rassegnati, per i quali persino le discontinuità che segnavano le tappe di passaggio delle generazioni precedenti sembrano ormai mancare nel loro personale palinsesto: la fine del percorso d’istruzione e formazione, l’entrata nel mercato del lavoro, l’indipendenza abitativa dalla famiglia d’origine, la costituzione di una relazione stabile di coppia, l’esperienza della genitorialità.
Ospiti di un mondo che non offre certezze, se non condizioni di vita peggiori dei loro padri, dai quali continuano a dipendere. Una generazione senza rappresentanza e senza voce, sulla quale sono state spese parole come vuoti a perdere e dove nessuno ha investito realmente qualcosa. E così i giovani inciampano fra i detriti di sogni infranti troppo precocemente, rassegnati a un deficit di speranza che li porta – per usare le parole di Sartre – a scegliere tra non essere nulla o fingere quello che si è.
Se i giovani stanno male, non è per le solite crisi esistenziali che segnano la loro età, ma perché un sentimento inquieto li invade, confonde i pensieri, cancella prospettive e orizzonti. Un sentimento che sembra gettarli in un’impotenza assoluta e in uno stato di costante incertezza, sfiducia e rassegnazione.
Pensavamo che fosse la generazione che aveva tutto, salvo scoprire che quel “tutto” mancava della cosa più importante: la possibilità di guardare la vita che avanza chiamandola per nome.
Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 27 gennaio 2014
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