Questa sera al Remigio Paone hanno presentato “Trillillì”…vedi all’interno con Riccardo Campino e la libreria “Tutti libri”
L’iniziativa editoriale è spiegata molto bene da Ambrogio Sparagna ed Anna Rita Colianni, intervistati da Riccardo Campino. L’iniziativa si è avvalsa della collaborazione di Enza Campino, Alessandro Ferraro, che ha curato i disegni, e alcuni virtuosi del suono della zampogna.
Colgo nel libro un racconto dalle forti analogie con un altro conosciuto recentemente. Da Trillillì:
“Nel Paese Senza Nome viveva Trillillì. Il Paese non aveva più un nome perchè tutto era cambiato dopo una notte, la notte del grande boato. Mentre gli abitanti dormivano tranquilli nelle loro case dai tetti rossi, adagiate ordinatamente lungo il crinale della collina, la terra all’improvviso aveva tremato: un terribile terremoto accompagnato da un rombo sordo e sinistro. La prima a crollare era stata l’antica torre che come un comandante impettito a capo del suo battaglione, svettava solitaria e fiera da tempo immemorabile in cima al filare di casette.
Si abbattè su se stessa al primo sussulto della terra, in una nuvola di macerie. Quando fu giorno il paese non c’era più, o meglio c’era ma non era più lo stesso. Non aveva più il profilo dolce ed ondulato, non c’era più un tetto rosso intero e al suo posto, nè strade nè cartelli nè insegne di botteghe c’erano più. Spazzati via dal grande boato. Crollata anche la scuola. I bambini non sapevano più dove andare. Allora le famiglie, i giovani partirono e non tornarono più”
Da “La voce degli uomini freddi” di Mauro Corona:
“Ma quella volta non fu così. Quella volta no. Si capì immediatamente che il rombo suonava diverso, così non l’avevamo mai sentito. Fin da quando le case degli innevati furono impiantate lassù, nell’appicco sotto il cielo come larici sul volto dei burroni, quel rumore lì non era mai comparso. E cresceva. Pareva sputato dal demonio in persona. A quel punto la gente ci fece caso e molti uscirono fuori, ma ormai era tardi.
Spuntò prima il muso, un ghigno bianco deformato dall’ira, alto dieci metri, con la bocca aperta. Dopo pochi attimi, in quella bocca entrò più di metà villaggio. Le fauci passarono come un tuono solido e, tra urli e nuvole di polvere gelida, se lo mangiarono in un boccone, come un cane che corre latrando e inghiotte al volo un uccellino. La montagna in movimento andò giù, raspò i terreni congelati che uscirono dal fondo nudi e lucenti come quando si vedono di notte illuminati dalla luna.
La parte ancora intera del paese ondeggiava spintonata dal vento bianco della valanga, e scandole e scorze di betulla volavano di qua e di là.”Anche in questo racconto molti andarono via dal paese distrutto dalla valanga ma altri rimasero e ricominciarono a vivere. Non so se è perchè Corona è nato ad Erto, oppure nel racconto lo si vuole proprio ricordare, ma sembra di leggere la cronaca del Vajont allorquando il monte Toc smottò nel lago artificiale della diga sottostante.
Alle ore 22.39 del 9 ottobre 1963, circa 260 milioni di m³ di roccia (un volume più che doppio rispetto all’acqua contenuta nell’invaso) scivolarono, alla velocità di 30 m/s (108 km/h), nel bacino artificiale sottostante (che conteneva circa 115 milioni di m³ d’acqua al momento del disastro) creato dalla diga del Vajont, provocando un’onda di piena tricuspide che superò di 200 m in altezza il coronamento della diga e che, in parte risalì il versante opposto distruggendo tutti gli abitati lungo le sponde del lago nel comune di Erto e Casso, in parte (circa 25-30 milioni di m³) scavalcò il manufatto (che rimase sostanzialmente intatto seppur privato della parte sommitale) riversandosi nella valle del Piave, distruggendo quasi completamente il paese di Longarone e i suoi limitrofi.
Vi furono 1.917 vittime di cui 1.450 a Longarone, 109 a Codissago e Castellavazzo, 158 a Erto e Casso e 200 originarie di altri comuni.
Nel paese di Trillillì però era andata meglio. Storie di catastrofi e di tragedie con la differenza che in Trillillì fu un terremoto mentre nel Vajont fu la colpevole responsabilità dell’uomo. I disegni del libro “Trillillì nel paese con le ali” sono eccezionali. Ne “La voce degli uomini freddi” è bella la copertina con le case abbarbicate sulla montagna tra la neve che tutto imbianca, copre ed attutisce. Storie di uomini, boschi, avventure, tragedie e primavere, affanni e lavori, nascite e morti, gioia e miseria, in un moto perpetuo, di padre in figlio. Insomma la vita, che come una gemma in primavera rinasce dal freddo inverno e non si ferma mai. Raccontare, ricordare, leggere e rielaborare è indispensabile per scrutare il futuro. Ne abbiamo bisogno. FC
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