LA BOMBA – ALCUNE FOTO ED UN ARTICOLO SULLA RIMOZIONE DI UN ALTRO ORDIGNO NEL 2005

DOMANI SI DOVRA’ ABBANDONARE LA ZONA ROSSA PER DISINNESCARE LA BOMBA – ALCUNE FOTO ED UN ARTICOLO SULLA RIMOZIONE DI UN’ALTRA BOMBA AVVENUTA NEL 2005

Via Pasquale Testa dove è stata ritrovata la bomba nel maggio 2005

Bombe in città.

Si realizza un bunker con sacchetti di sabbia dove disinnescare la bomba

Dal residuato bellico, alla potenza distruttiva della tecnica: in mare, in cielo e in terra. 
E del disagio indotto dalla privazione della “libertà di movimento”.

Una bomba affiora da un terrapieno mentre è in costruzione un muro di contenimento. La posizione della casa è “imbarazzante”: due anni fa lì vicino un’altra bomba aveva fatto capolino ma, in quel caso non era stato necessario lo sgombro e l’evacuazione in massa. Si gode un bel panorama da lì e quando questo trambusto sarà finito si riprenderà a vivere normalmente, con buona pace di tutti e dimenticando presto l’increscioso ritrovamento.

Una bomba anomala? Una bomba subdola? Una bomba che precorre i tempi? Di più: una bomba che la tecnica anglo-americana ha messo a punto per creare danni e terrore. La logica della guerra è questa ancora oggi, e non è fatta per cuori troppo teneri. 
Scusate il disagio! Signori, credete che la guerra sia un “pranzo di gala”? 
Anche noi italiani non scherziamo in fatto di bombe.
Le sappiamo disinnescare, bravissimi quelli del 6° Reggimento Genio Pionieri, ma le sappiamo anche costruire. Perenni contraddizioni. Provate a immaginare quello che accade in Afganistan, in Iraq, ecc… da una parte vendiamo armi, dall’altra diamo solidarietà e offriamo assistenza. Tutto l’occidente è in questa doppia misura. La tecnica non ha patria. Si diffonde con razionalità, organizzata per produrre artefatti, per modellare appunto, secondo riferimenti astratti, realtà e coscienze. La tecnica applicata alla guerra si è spinta con una sua dilagante ragione: in cielo, in terra, in mare … e persino nelle coscienze.

I nostri soldati, quelli che sono stati qui a Formia, venivano dall’Iraq, stavano partendo per il Sudan e sono stati “dirottati” da noi, poi li aspetta l’Afganistan… Parlando con loro ho avuto l’impressione di trovarmi davanti a degli uomini ben consapevoli del loro lavoro, dei rischi che corrono, del silenzio composto in cui operano; essi meritano il nostro riconoscimento, la nostra gratitudine e la nostra attenzione che è tale solo se riusciamo a capire che dovremmo esporli solo a “rischi ragionevolmente accettabili”.

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“Non vedevamo Formia così, da quand’eravamo bambini” – L’abbiamo pensato in molti e in molti abbiamo anche constatato i vantaggi di una città meno assediata da macchine e motorini: una città possibile solo ci fosse la determinazione necessaria. Traffico ridotto al minimo, strade vuote (come diceva la canzone), deserte no: le vorremmo piene di gente che cammina a piedi, che parcheggiata la macchina fuori dal centro, fosse condotta qui da bus-navette, magari con motori elettrici, che ogni cinque minuti permettano a tutti di spostarsi facilmente da nord a sud, da est a ovest.
Chi ha viaggiato un po’ sa bene che città senza l’assedio del traffico, esistono.

Quasi con sorprendente stupore, stiamo vivendo l’assenza di rumori meccanici, l’assenza di odore di smog, constatiamo la larghezza delle strade senza l’ingombro del serpentone gommato. Ma nello stesso tempo incombe un po’ su tutti l’angoscia dell’isolamento, del sentirsi in trappola senza la “libertà” di MOVIMENTO.

Da circa un secolo – l’abbiamo dimenticato? – l’automobile, e prima ancora il treno, hanno cambiato non solo il modo di spostarsi ma hanno dilatato le dimensioni della nostra possibilità di esplorazione (appropriazione) del territorio. Piena adesione a questo bisogno “interiore” lo percepiamo nel successo dei cosiddetti “fuoristrada” che circolano per lo più in città, con buona pace degli uccellini e dei tratturi di montagna.

L’automobile è cambiamento di prospettiva epocale e irreversibile, profondo quanto, se non maggiore, della televisione e di Internet, che ci vogliono a casa davanti a un monitor. Vere esplosioni di senso del reale furono quindi le automobili, la loro “velocità e dinamismo”, tanto esaltate dal Futurismo e dalle Avanguardie del Novecento: meraviglie della tecnica ma anche strumenti molto efficaci per la guerra.

Immagino lo stupore dei nostri vecchi quando vedendo arrivare carri armati terribili, blindati, aerei carichi di bombe si saranno sentiti stringere da un morsa di inaudita forza distruttiva. Come afferrati da una mano che stritola ogni cosa e che è impossibile fermare. Da allora fino ai bombardamenti sul Vietnam, sull’Afganistan e poi sull’Iraq, le “fortezze volanti” – da Elona Gay, la più tristemente famosa per aver trasportato e sganciato la bomba atomica su Hiroscima a quelle di oggi – sono il simbolo di una distruzione operata dalla tecnica asservita alla guerra, in modo quasi anonimo, asettico, chirurgico o addirittura “intelligente”.

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Ora che ci facciamo qui, chiusi nelle nostre case? Allontanati o bloccati con una ordinanza di sgombero come fossero già pericolanti, ovvero fossimo noi in pericolo reale, anche se distanze e spazi, dal luogo di eventuale esplosione, sono ragionevolmente tranquillizzanti.
Il fatto è che la tecnica non ci ha dato solo automobili e bombe, ci ha dato e ci dà una mentalità 
“modellistica”, che aiuta molto a progettare e prevedere, ma che utilizzata senza la “coscienza del reale”, senza la deflagrante immersione nel mondo sensibile ( disagi, malattie, sofferenze, incapacità, impedimenti ) assume le forme di un drago. Ordinanze fuori misura conducono a quello che abbiamo visto in questi giorni.

La sua esplosiva oggettività è paralizzante – un cerchio tracciato con un compasso su una cartina della città – diventa l’area delle operazioni. Come fossimo un territorio di guerra o di conquista, di catastrofe o di dominio. L’oggettività ( anch’essa pura astrazione ) conduce a semplificazioni terribili, a disumane applicazioni di regole, a comportamenti che ostacolano e allontanano.

“Per ragioni di sicurezza bisogna abbandonare le case e radunarsi nei centri di raccolta” – vengono in mente catastrofi bibliche se non fosse per il ridicolo che tali pensieri suscitano. Si sentono termini come “unità di crisi”; la città pullula di posti di blocco dove chiunque abbia una paletta in mano è investito da serissimo incarico.

Questa mentalità da burocrati, in realtà è una maschera del potere di invadere la vita degli altri con delirante impunità, una maschera della volontà di dominio che sonnecchia in fondo a ciascuno di noi – una forza che si nasconde e si svela – dove il comando è il segno distintivo di un potere che se non si esercita senza un po’ di disgusto, è segno di turba mentale.

Devo segnalare la tranquilla comprensione dei Vigili Urbani, dei volontari della Protezione civile, della maggior parte degli uomini e delle donne delle Forze dell’Ordine i quali, chiamati ad operare in condizioni difficili e improbe hanno dato il meglio con benevola capacità di discernere: hanno scelto e compreso.

Tutti ci stiamo chiedendo come mai quel signore che si è costruito la casa “su un deposito di bombe”, non abbia sentito la necessità di essere, come dire, più prudente. È proprio normale costruire a filo di strada e lungo una ferrovia? Lo so, non è l’unico a Formia. 
E se è vero che quel terreno fu utilizzato per interrare residui bellici trovati intorno alla ferrovia, come mai non è stato bonificato, come mai non lo si è segnalato? 
Pare che sia stata anche fatta una bonifica dopo il ritrovamento di due anni fa…
Misteri della tecnica…

Chissà quante altre bombe giacciono inesplose in città, chissà quante sono state scoperte e sotterrate, oppure caricate su una carriola e gettate in mare. Ci dobbiamo preoccupare? Con questi pensieri non andiamo lontano.

I pericoli incombono sempre: ci basti che “il rischio sia accettabile”.

Luigi Pinelli

Maggio 2005

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