Pedro Sánchez ce l’ha fatta. Ha riportato un partito socialista al primo posto di un grande Paese europeo e toccherà a lui tentare di fare un governo. Di sinistra? Di centro? Di salvezza nazionale? Dipende. Sánchez è «liquido», «post ideologico». Dipende da cosa sarà meglio o semplicemente possibile. Ma la diga alla destra illiberale di Vox si è alzata. E si chiama Psoe. Una parte della Spagna ieri voleva far paura, chi si è spaventato ha reagito votando socialista. Non ha nulla a che vedere col socialismo storico del XX secolo, forse sarebbe meglio chiamarlo progressista, forse riformista, ieri significava semplicemente democratico.
Pedro Sánchez ha ora la fortuna di poter cercare una maggioranza senza fretta. Potrà tergiversare almeno fin dopo il voto europeo di maggio in modo da evitare di scontentare qualcuno di quelli che l’hanno scelto nelle urne appena ieri. La politica è così ormai: una verifica dopo l’altra, un sondaggio dopo l’altro. Eppure nell’era del pensiero in pillole, superficiale, «Pedrito el guapo», Pietrino il bello, era quello di cui la Spagna aveva bisogno.
Sánchez è più amministratore delegato che segretario politico, più bravo ad apparire piuttosto che ad essere, capace di adattarsi, parlare di femminismo alle donne e tradizione agli allevatori, di salari insufficienti ai dipendenti e sgravi agli imprenditori. Convincente e piacevole come un attore, adatto a non farti cambiare canale e non sembrare lento quanto un cellulare di tre anni fa. Ma davanti a un Vox arrembante che propone di sospendere le autonomie regionali, di centralizzare, privatizzare, riportare la famiglia agli anni 50, Sánchez è apparso un Avenger del modello europeo di socialdemocrazia, affidabile per le imprese, rispettoso della sfera privata e attento ai più deboli. Saldo, rassicurante. Se i catalani dovevano pensare a un premier benevolo alla fine del processo ai loro leader pensavano a lui. Se i gay, le femministe, i baschi dovevano immaginare un difensore dei diritti acquisiti, pensavano a lui.
Il Partido Socialista Obrero Español non ha solo un nome pomposo (socialismo, operai: roba da sussidiario), ha anche traghettato la Spagna fuori dalla dittatura negli anni 80 del secolo scorso e, hanno pensato gli elettori di ieri, può servire a tenere il Paese dentro il mondo democratico anche in questo decennio del XXI secolo. L’aveva capito prima di tutti Sánchez. Sin da dicembre, quando in Andalusia il Psoe è sì arrivato primo, ma ha dovuto lasciare il governo di Siviglia alle destre che si sono spalancate a Vox. Per il nuovo movimento nazionalista la democrazia viene dopo l’onore e la patria. È stato quel giorno che Sánchez ha deciso di scommettere sul voto anticipato. O tutto o niente. Una sua specialità. Per prepararsi alle elezioni Sánchez è stato spregiudicato. Ha promesso di aumentare pensioni, stipendi, ricerca, aiuti all’impresa, all’ambiente, ai migranti, al welfare. Per decreto ha alzato il debito strutturale e, confermando una certo istinto clientelare, ha assunto 11 mila nuovi dipendenti pubblici.
Una determinazione già mostrata nella battaglia per il controllo del partito. Sánchez era diventato segretario alle primarie grazie alla base, ma la struttura lo ignorava. Lasciò la segreteria. Starsene parcheggiato non gli bastava. Tutto o niente, appunto. Ricominciò dalle province, baciando le zie che cucinano paella alle cene di sezione, e alle primarie successive trionfò sulla vecchia guardia. Ieri Sánchez ha completato la rottamazione. Gli ex segretari non l’hanno aiutato in campagna elettorale. La vittoria è tutta sua. Felipe González, José Luis Zapatero, Pérez Rubalcaba, i suoi predecessori, sono stati muti quasi tifando per la sconfitta. Dovranno scomparire. Il Psoe che ha vinto ieri è marchiato Pedro Sánchez. Via dal simbolo incudini, pugni, rose, il logo dell’era Sánchez un cuoricino rosso, come un emoticon. Il passato è storia. Il futuro è da inventare. Senza marce indietro.28 aprile 2019 (modifica il 28 aprile 2019 | 23:13)
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