Ieri sera è venuto a mancare Francesco Centola (Formia 30 Ottobre 1920). Era il più anziano dei nostri iscritti. Caporal maggiore della Divisione Alpina Tridentina, VI° Reggimento Alpini – Battaglione “Verona”. Partecipò alla ritirata del Don e alla battaglia di NikolajewKa. Dopo l’8 Settembre 1943 non volle aderire alla Repubblica di Salò e fu deportato in Germania per lavorare in una fabbrica di scarpe. Fu successivamente deportato nel lager di Auschwitz – Birkenau. Liberato dall’Armata Rossa nella primavera del 1945, fu insignito dai Russi della medaglia di “Onore alle Armi” per il coraggio e la tempra dimostrati a Nikolajewka. Il debito di riconoscenza che dobbiamo a lui e tanti altri alpini e soldati è molto alto. Dobbiamo a loro la nostra libertà e la pace in Europa.
FRANCESCO CENTOLA: UN ALPINO PARTICOLARE
Era pescatore e andò coscritto in Marina ma finì in Russia, sul Don, nella stessa Divisione di Mario Rigoni Stern. Rigoni Stern riceveva continuamente lettere, diari, con segnalazioni, memorie, storie di tanti soldati che erano stati in Russia. Gli raccontai la storia di Centola che tornò a Formia mentre un altro formiano, Costanzo Villa, battaglione Edolo, fu disperso. Centola, classe 1920, vive a Formia ed è l’iscritto più vecchio dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia del golfo di Gaeta.
Centola, lo vedevo davanti al monumento ai caduti il 4 novembre ed il 25 aprile, col cappello d’alpino. Erano in due, con lui c’era sempre Salvatore detto “Campione” che io sfottevo per via di una penna lunghissima la cui provenienza (quale volatile) non era dato sapere. Insomma pensavo:- ma andiamo…alpini? Ma se uno faceva il pescatore e l’altro il netturbino!
Nel Luglio del 2007 inaugurarono a Tolmezzo il monumento a Cosmo Valeriano (Alfa) e Luigi Coradazzi, due partigiani garibaldini entrambi uccisi nel luglio 1944 dai nazifascisti mentre tentavano di recuperare delle armi. Valeriano aveva 20 anni, era partito da Formia una quindicina di giorni prima dell’otto settembre. Il giorno dell’Armistizio si dà alla macchia e si unisce alle brigate Garibaldi.
Coi familiari di “Alfa” siamo partiti da Formia in pulman e, dopo un lungo viaggio, siamo giunti a Tolmezzo. Dopo l’inaugurazione abbiamo proseguito per lo Zoncolan, celebre tappa di montagna del giro d’Italia. E’ stato in quei boschi che Centola ha cominciato a raccontare.
Lo avevano mandato a Taranto, imbarcato su di una nave da guerra: l’incrociatore “Giovanni dalle bande nere”.
Un paesano, in alto grado, lo aveva aiutato: restò alla guida di un piccolo motoscafo con il quale accompagnava il comandante della nave a terra e viceversa. Un marinaio di Sezze gli chiese un passaggio ma lui rifiutò poiché attendeva il comandante. E allora cominciarono gli sfottò: lecchino…ruffiano.
Poi giunse l’offesa fatale: Centola tu non sei altro che un marinaio d’acqua dolce!. E Centola reagì, afferrò il marinaio di Sezze e lo buttò in mare. Per fortuna riuscirono a tirarlo in salvo ma per il marinaio di Formia le cose volsero al peggio.
Doveva essere processato ma l’ufficiale, suo paesano, lo salvò.
D’accordo col comandante della nave gli fecero fare domanda per andare nell’esercito. Finì tra gli alpini e in un paio d’anni successe il finimondo: lo mandarono prima in Francia e poi in Russia.
Sembrava una sventura ma era un’opportunità, come spesso diceva Vittorio Foa. Infatti mentre era in Russia la sua nave affondò portandosi via tutti, compresi il marinaio di Sezze e il comandante della nave. Ma in Russia cominciava la tragica storia degli alpini: partiti in 250 mila con l’ARMIR, tornarono in 80 mila. Quando decisero la ritirata gli ufficiali radunarono i soldati ponendoli di fronte al dilemma: farsi prigionieri dei russi o tentare la ritirata verso l’Italia. Nell’una e nell’altra direzione c’era l’ignoto. Più forte fu il richiamo dell’Italia e allora iniziarono a ritirarsi. Centola era nella Divisione Tridentina, Battaglione Verona. Un giorno gli chiesi: -ma come facevi ad intenderti coi vicentini, i bergamaschi che quasi parlano tedesco come diceva Sordi a Gasman nel film la “Grande guerra”.-
Mi guardò pensieroso e allora rispose. “Si capiva tutto, era la guerra che te lo faceva capire. Mentre eravamo nella steppa, nella neve, stremati dal freddo e dalla fame, marciando a tutte le ore, m’imbattei in un soldato che gemeva a terra. Aveva l’addome squarciato era moribondo. Un capitano mi viene incontro e con fare deciso mi comanda: copalo!
Mai avevo sentito quella parola eppure capii in un lampo e gli risposi nel mio dialetto: accidiglie tù (uccidilo tu). L’ufficiale ricomanda: “copalo”. E Centola: “signor capitano ma è moribondo, anzi già morto, scansiamolo dalla pista che gli altri soldati non stiano a calpestarlo”. Quell’altro irremovibile ripete: “copalo”. Centola cerca di convincerlo e quello spiana la pistola e gli grida: “copalo”. Centola al colmo dell’ira e della paura prende una bomba a mano dal tascapane ed è pronto a tirar via la sicura. Un altro alpino gli ferma il braccio, il capitano abbassa l’arma. Centola prende il moribondo e lo trascina via dalla pista.
Ripensando a quell’episodio oggi mi dice: “dottò io dopotutto sono stato fortunato pensa che qualche anno fa ho avuto anche un tumore all’addome. Il chirurgo mi ha letteralmente spaccato in due ed io la notte avevo incubi. Mi tornava alla mente quel moribondo col ventre squarciato e mi dicevo: è giunta la mia ora. E però sono ancora qua”.
Allora lo sprono ancora a raccontare di come continuò la ritirata.
Ed ecco la sacca di Nikolajewka il 26 gennaio 1943. Quello che mi raccontò Centola fu l’esatta verità. Ne parlai una volta con Mario Rigoni Stern. Mario diceva che molti erano stremati e non volevano più combattere, stavano a guardare come andava a finire, rimanevano indifferenti mentre pochi alpini con la forza della disperazione andavano ancora all’assalto per rompere l’accerchiamento. Centola fu preciso:
la lunga colonna giungeva in vista di Nikolajewka. dove i russi s’erano appostati con cannoni e mortai. L’accerchiamento era compiuto. Alcuni alpini prelevarono la benzina residua dai mezzi abbandonati e rifornirono l’unico carro armato in grado di funzionare. Era ormai quasi sera e in quelle condizioni non avrebbero potuto trascorrere la notte. Diversi tentativi di rompere l’accerchiamento erano falliti quando il Generale Luigi Reverberi salito sul carro, a sciabola sguainata, comandò l’attacco gridando tre volte: “ Tridentina avanti”.
Queste due parole restano nel giuramento e nel simbolo della Tridentina. Non appena il carro si mosse i disperati vennero avanti, combattendo per sé e per gli altri, ruppero l’accerchiamento. Centola giunse a Trieste e fece un mese di contumacia. Per il tifo petecchiale fu letteralmente rapato a zero, dappertutto.
Ma i colpi di scena non erano finiti. Il Capitano che gli aveva ordinato il “copalo” lo aveva denunciato per insubordinazione e Centola dovette subire un processo.
Fu interrogato dal Generale Italo Gariboldi che gli domandò perchè non avesse eseguito l’ordine e lui ancora convinto rispose che quell’ordine era sbagliato: quell’alpino era moribondo e andava lasciato in pace. Allora il generale lo incalzò chiedendogli cosa avesse fatto se quel soldato fosse stato un nemico e Centola fermo gli rispose che ugualmente non lo avrebbe ucciso perché quell’uomo era ormai finito. E fu assolto con encomio per la fermezza con la quale aveva difeso quella sua scelta di umanità.
Tornò a Formia per pochi giorni dalla giovane moglie ma poi rientrò a Verona. E giunse l’8 settembre e Centola tornò a Formia. Fu sfollato e nascosto con la moglie nella piccola frazione di Trivio di Formia.
Ma lì arrivò l’apocalisse. Durante un furioso bombardamento navale da parte di navi inglesi (27 gennaio del 1944), una granata schizzò sulla piazza e rimbalzò all’interno della chiesa. L’esplosione fu tremenda, ferì gravemente Francesco Cèntola ad una gamba, la moglie ebbe una scheggia sulla fronte e morì dopo due giorni d’ agonia, una cognata ebbe un arto tranciato e il figlioletto di pochi mesi morto sul colpo. Il padre non lo vide tornare sui monti di Formia, dove si nascondeva, e allora scese a Trivio per cercarlo. Lo trovò, se lo caricò sulle spalle e risalì la montagna. La ferita alla gamba era molto brutta ma passarono alcuni soldati che notarono il cappello d’alpino e chiesero al padre di chi fosse.
Quando lo videro denutrito e straziato dalla ferita decisero di riportarlo al Nord dove avrebbero potuto curarlo meglio.
Tornò a Verona, guarì ma fu prigioniero dei Tedeschi. Lo interrogarono chiedendogli se era un “schuhmacker”. Ma Centola non capiva cosa volesse dire “schuhmacker” e così senza poter rispondere fu preso e deportato in un paesino vicino Insbruck. Lì un maresciallo austriaco gli chiede ancora se era uno schuhmacker e Centola gli risponde: “io no shumack…io pescatore…” e il maresciallo con la caramella, paonazzo in volto, comincia a minacciarlo:– italiani scheibe (merda) kaput !– Un giovane di Ferrara che conosceva il tedesco gli sussurra: “Centola, per l’amor di Dio, digli di sì, digli che sei un ciabattino altrimenti questi t’ammazzano”. –Si io shumack…shumack si– . Non seppe mai perché e chi gli avesse scritto sul suo documento d’identità che era un ciabattino.
Così finì nel lager ad inchiodare le suole ma anche qui non ebbe pace per il suo carattere un po’ ribelle. Mentre inchiodava le suole, ogni tanto, suonava la sirena poiché arrivavano i cacciabombardieri alleati. La pioggia di bombe faceva scappare tutti tranne Centola che cominciava a cantare a squarciagola, mostrando tutta la sua soddisfazione per i danni che gli aerei alleati facevano ai tedeschi. Appena cessato il bombardamento iniziava la rappresaglia contro di lui. Finì ad Auschwitz obbligato a trascinare cadaveri nei forni crematori. Fuggì attraverso una fogna che conduceva dritto ad una chiesa e lì grazie all’aiuto di un prete si dileguò ma nel frattempo era arrivato il 1946 e così tornò in Italia.
Se vi chiedono dell’Italia, raccontate di Centola e di Mario Rigoni Stern, di come l’hanno onorata, di quale dignità e umanità sono stati capaci malgrado la Medusa…che nonostante tutto non è riuscita ad impietrirli.
Francesco Carta
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