Parlare del CCP (Centro di Cultura Popolare) è un compito arduo, non solo perché è stata un’esperienza politica e umana corale, a più voci, per cui è impensabile rendere, seppur sinteticamente, la ricchezza di questa pluralità, ma soprattutto perché è stata l’esperienza politica più importante nella vita di Ubaldo Petrone, quella per la quale egli spese le sue energie maggiori e provò l’entusiasmo e le emozioni più forti (come noi stessi possiamo confermare e i suoi più stretti congiunti possono testimoniare). La politica era intesa da Ubaldo come sentimento del vivere collettivo, “alta febbre del fare”, per dirla – si parva licet – con Pietro Ingrao. “I miei ragazzi”: così ci chiamava Ubaldo…
Allora vediamola più da vicino questa breve avventura del CCP (una primavera che durò dal 1973 al 1976), di cui Ubaldo Petrone è stato l’incarnazione più viva e, nel contempo, contraddittoria, nel senso della fecondità e fertilità di esiti che le contraddizioni spesso producono nella vita degli uomini.
Intanto, la prima e più vistosa contraddizione di Ubaldo consisteva, da un lato, nel suo aprirsi a soggetti giovani che facevano della critica alla sinistra tradizionale (il PCI in primis) la propria identità distintiva (senza indulgere nell’anticomunismo, come taluni speciosamente sostenevano allora, e qualcuno, stucchevolmente, insiste a ripetere ancora oggi…), dall’altro, nel suo rimanere legato (come un amante tradito e deluso, ma ancora innamorato) a quello che egli stesso amava definire il “Partitone” (e non per una volontà di proselitismo delle nuove generazioni in direzione del PCI, come è stato suggerito…).
È indubbio, invece, che Ubaldo, già prima dell’incontro con quelli della nostra generazione, nutrisse un sentimento che poi condivise con noi compagni più giovani, se è vero, come è vero, che nel 1968 fu in netto dissenso rispetto alla posizione condiscendente assunta dal Partito comunista di fronte all’invasione sovietica della Cecoslovacchia.
In presenza di un movimento, come quello del ’68, che rifiutava ogni mediazione (a cominciare dalla forma-partito, in particolare il partito-massa nelle sue due articolazioni: il partito-mercato DC [Democrazia Cristiana] e il partito-piano PCI), un movimento che rivendicava un protagonismo dei soggetti in quanto “socialmente legittimati” — il PCI si chiuse in difesa, rinunciando a rielaborare la propria identità all’altezza dei nuovi antagonismi. I movimenti degli anni ’60 avrebbero forse potuto aiutare il PCI in una tale opera di rielaborazione, se questo partito avesse mantenuto aperto anche solo uno spiraglio: quei movimenti rappresentavano, in fondo, l’unica opposizione adeguata ai processi di integrazione di massa che il benessere, allora affluente, andava mettendo in atto, e che erodevano le ragioni materiali stesse del vecchio partito di massa.
Così non fu. E la radiazione del gruppo del Manifesto nel 1969 fu una porta sbattuta in faccia a chiunque stesse fuori (Pietro Ingrao si è più volte pentito di aver votato a favore dell’espulsione di questi compagni!).
I movimenti continuarono allora a “scongelare” l’ideologia comunista da soli, dando vita al ’68 studentesco e a buona parte del ’69 operaio. Poi, qualcosa li fermò…… Ecco, noi crediamo che Ubaldo condividesse questa lettura, ed è innegabile non solo alla luce del confronto che si aprì tra lui e noi nel CCP, in particolare in occasione del dibattito sulla proposta di “compromesso storico” avanzata dal PCI all’indirizzo del mondo cattolico, ma soprattutto facendo riferimento alle sue stesse dichiarazioni (vedi, ad es., il testo del suo comizio di chiusura della campagna elettorale del CCP nel 1975), da cui risulta con grande evidenza che tipo di intellettuale fosse Ubaldo Petrone e di quali letture, non solo di parte (citava Spinoza in un comizio di piazza!), la sua curiosità culturale si alimentasse.
Per comprendere come si arrivò alla nascita del CCP, occorre ricordare quali fossero l’atmosfera culturale e la temperie politica, in un’assonnata città di provincia come la nostra, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70.
Come potremmo dimenticare quei primi bagliori sul finire degli anni Sessanta?
Gli incontri, l’attesa smaniosa di un evento, la ricerca di un ‘senso’, battiti più forti per il polso già febbrile della nostra adolescenza, dopo tanti miti notturni e polverosi.
Il ’68 arrivò in ritardo qui a Formia. Se mai arrivò un ’68: o fu piuttosto l’eco ormai affievolita di ben più grandi “furori” metropolitani…
Lo sbocciare improvviso dei primi club musicali (in particolare nei quartieri popolari); i volantini contro il lucchetto ai gabinetti del liceo; le prime riunioni di improvvisati collettivi studenteschi, il delinearsi di “acuti dissensi”, improbabili discriminanti di classe. Che dura la strada dai gruppi al partito!
Poi l’Unione marxista-leninista (con sede in vico Traiano, a Castellone), uno sparuto gruppetto di anarchici, il MAC (Comunità di Animazione Cristiana), sorto nel 1970 attorno alla figura del vice parroco della chiesa del Carmine. Variopinta la tela dell’orizzonte politico giovanile per una città altrimenti insipida e incolore.
La campagna elettorale del 1972 giunse infine a stanarci da cantine buie e umide, irrespirabili di fumo e di utopismo. L’illusione estrema di un gesto eversivo dentro le istituzioni parlamentari si sbriciolava contro il più brutale dei disincanti…
“Da dove arrivano quei vecchietti?”. Dopo l’attesa, la domanda non era irriverente per chi cercava risposte rassicuranti ai postumi di una febbre adolescenziale. E quei “vecchietti” che fuoriuscivano, quasi per travaso da eccesso di bile, dalla sezione formiana del più grande partito comunista dell’Occidente portavano con sé una carica nuova, inconsueta, con in più una somma di esperienze ad altri (a noi) sconosciuta. Dalla ‘sconfitta’ maturata in seno al PCI sembravano trarre la forza per andare incontro all’ultimo hurrah, con un peccato d’orgoglio faustiano che trascendeva le regole e i limiti di una competizione politica (quanto umana!) proibitiva per le troppe prove affrontate in un quarto di secolo.
Sull’incontro di esperienze così lontane e vicine (noi confusi, un po’ dogmatici, loro prudenti, quasi timorosi, ma entrambi incuriositi), il CCP costruiva il suo nido. E lì visse la sua breve vita diurna.Il 1° maggio 1973, sulla vecchia bacheca del PSIUP, appariva il primo foglio con l’intestazione del CCP che, nel tipico stile colto, ironico e appassionato di Ubaldo Petrone, recitava testualmente:
«Lavoratore di Formia, anche quest’anno, per il 1° maggio, ti hanno preparato la solita farsa mistificatoria: tutti insieme alla ‘festa’, con la benedizione del prete, la protezione del santo e gli ammiccamenti del sindacalista burocrate. Venga pure la ‘festa’, ma sia soprattutto il 1° maggio un giorno di chiarezza, di presa di coscienza: ricorda che tutte le conquiste dei lavoratori sono state frutto di lotte che hanno visto i tuoi compagni pagare di persona, talora con la vita. Tieniti stretto ai tuoi compagni e lottiamo insieme per costruire una società di giusti e di eguali, una società senza padroni!».
Era nato il primo periodico del nuovo dissenso a Formia. Ubaldo pensò subito di chiamarlo “Manifesto” e numerarlo progressivamente onde evitare noie con le leggi vigenti sull’affissione di stampa non autorizzata. Nel giornale murale, strumento più agile e brillante di quelli concepiti fino ad allora, il CCP faceva spia della sua attività di propagandista-agitatore-stimolatore-sovvertitore dell’appiattita atmosfera politica formiana. I brividi percorsero i più…
Ma l’entusiasmo è febbre caduca e, dopo 3 anni di vita splendida, il CCP si spegneva per lenta consunzione interna. Al funerale del CCP ci sentimmo tutti più poveri, più soli e più tristi, perché, contro ogni regola del gioco, avevamo voluto credere nel prolungarsi della stagione più bella della nostra gioventù. Tardiva e ingenua contrizione.
Nella sera, la voce di chi è rimasto si tinge dei colori dell’ironia per collocarsi in una sfera prettamente ‘intellettuale’, incompatibile con le credenze e le fedi, pochissimo conciliabile con l’ottimismo dogmatico. Gli orizzonti non sono più nitidi e ben delineati, ma esili, possibili, cancellabili con un dito.
La società costituita rifiuta di essere distrutta da un’affermazione di volontà, uno slogan, una trasgressione, una fuga, una manifestazione, un gesto, un giornalino, una beffa: resiste, è sempre lì, la struttura non frana sotto i colpi della sovrastruttura. La realtà è dura e complicata, bisogna innanzitutto imparare a conoscerla: i ribelli abbandonano la vacanza per le strade, tornano nella scuola politica a studiarla. Nessuno gioca più, “l’infanzia” è finita. E, nella notte che incombe, comincia inevitabile la “letteratura” di memoria.
Se però un bilancio, per quanto provvisorio, dell’esperienza politica di Ubaldo Petrone è oggi possibile, alla luce della nostra conoscenza diretta di lui e di quello che si può ricavare dai suoi scritti sparsi, crediamo si possa dire che il suo impegno sociale e politico era connotato da solide venature morali. Se solo si pensi, ad es., agli appellativi che Ubaldo utilizzava nel riferirsi ai notabili democristiani di allora, descritti di volta in volta come “inetti e incapaci” o “ignoranti”. Oppure alla sua strenua denuncia delle connivenze, in seno al consiglio comunale e al di fuori di esso, tra maggioranza e opposizione che, letteralmente, recitavano “un grottesco gioco delle parti sulla testa (e sulla pelle) dei cittadini”, o ancora ai suoi riferimenti continui allo “scadimento e alla involuzione dei partiti della sinistra tradizionale” (leggi: sezione locale del PCI).
È qui che affondano le radici dell’indignazione di Ubaldo Petrone, una sorta di “marxismo morale” tutto interiore, un viluppo di forti convinzioni e di crisi, senza compiacenze e clamori (se non la rabbiosa rivendicazione della giustizia delle cose nel mondo), bramoso di scoprire il midollo della verità sotto la corteccia degli slogan
La parola “compagno”, la parola “comunista”, sulla bocca e nell’agire politico e umano di Ubaldo (e di noi che abbiamo, con lui, condiviso l’esperienza del CCP), suggellavano un patto di appartenenza e solidarietà a qualcosa ben oltre i gruppi politici e i loro programmi, qualcosa che provocava vibrazioni e risonanze penetrate fin dentro il sangue della passione-illusione di trasformare il mondo, gli uomini e le cose.
Ma non ci nascondiamo la cruda realtà. Sappiamo benissimo come è andata: la sconfitta di chi, come quelli della nostra generazione, si proponeva di cambiare, o addirittura di rovesciare, il mondo, è davanti agli occhi di tutti. E tuttavia, una consapevolezza autocritica come questa non ci esime dalla constatazione che oggi viviamo un tempo in cui la storia è diventata piccola, un tempo in cui prevale la cronaca quotidiana, il chiacchiericcio, il lamento, le banalità.
Non viviamo più il tempo che si trasforma in epoca e, sollevandosi, rimane e parla al futuro….. Il futuro è stato catturato nel presente. Non è più possibile immaginare niente che non sia la continuazione del nostro oggi. Dove sono la grande politica, con le sue idealità a volte tragiche ma grandiose, perché capaci di mobilitare masse enormi di donne e uomini attorno a un comune sentire e progettare? E dove sono anche il grande pensiero, la grande letteratura, la grande arte? Non sembra esserci più nulla di ciò che il Novecento (e in particolare la sua prima parte) ha prodotto.
Apparteniamo a una generazione che, formatasi politicamente a partire dal ’68, ha desiderato fin dal suo esordio, lo scioglimento di un apparato sovietico (il PCUS) guidato da burocrati totalitari e ottusi, e ha desiderato da subito la caduta del muro di Berlino.
Una generazione che, forse ingenuamente, vedeva nella Resistenza una rivoluzione tradita: tradita da chi era legato mani e piedi a un’ideologia e a una prassi politica –quella stalinista– che del comunismo è stata la peggiore delle degenerazioni.
Consapevoli di essere fra coloro che – come Ubaldo Petrone – si erano battuti contro il “socialismo reale” all’italiana, pagando per questo uno scotto non lieve.
Per questa generazione, per la nostra generazione (o parte di essa), la difficoltà maggiore è stata, ed è ancora, rimanere adeguati a se stessi, all’altezza di quanto si anticipò e si presagì. Non provare timore, insomma, di aver avuto ragione sulle cose che contano.
La stagione degli anni ’70 è stata, per noi, un modo splendido di vivere la giovinezza, un modo affermativo di imporre i propri diritti alla vita. Quella stagione di formazione, l’unica che davvero conta nella vita di un uomo, non fu solo morte e violenza (come la banalizzazione e la volgarizzazione sui cosiddetti “anni di piombo” tentano prepotentemente di far credere), ma fu soprattutto il tentativo, folle e straordinario allo stesso tempo, di portare l’assalto al cielo, perché il cielo fosse di questa terra.
«Non esiste questione politica che non si innesti su questioni propriamente morali», ci ammoniva Franco Fortini, uno dei padri putativi della nostra generazione. Ed è proprio un compagno come Ubaldo, che ha sempre improntato il suo agire politico a una forte testimonianza etica, che coniugava il dire e il fare con un’attiva e militante coerenza, ispirata a prassi e princìpi squisitamente laici, è proprio la testimonianza in vita e la coerenza in morte di Ubaldo Petrone che potrebbero (e dovrebbero) costituire un esempio per chi, tra le giovani generazioni, sembra voler cedere all’accettazione, se non alla rassegnazione, di fronte alle ingiustizie del mondo.
La strada che Ubaldo ha tracciato, e ha indicato a molti di noi, non termina lì dove sono deposte le sue ceneri. Fin da quell’ormai remoto 1973, in cui insieme demmo vita all’esperienza magnifica del CCP, sapeva già Ubaldo, lui che ha scritto una delle pagine più appassionate e limpide della nostra storia comune, ciò che noi stessi abbiamo dovuto apprendere negli anni seguenti: che la casa non c’è più e che trovarne o edificarne una nuova è molto, molto difficile.
Ma non per questo – e anche in suo nome – abbiamo smesso di cercarla…
L’intervento di Francesco Carta
L’epoca era quella della Primavera di Praga, 5 Gennaio 1968. Gli anni ‘60 della prosperità economica finivano con l’inizio delle possenti lotte studentesche ed operaie del 1968 e 69. In merito all’invasione sovietica della Cecoslovacchia, la rivista il Manifesto, promossa da Luigi Pintor, Aldo Natoli, Valentino Parlato, Luciana Castellina, assume posizioni in forte contrasto con la linea maggioritaria del partito comunista che ne chiede la sospensione delle pubblicazioni. Il Comitato centrale del PCI del 24 novembre 1969 delibera la radiazione per Rossana Rossanda, Luigi Pintor e Aldo Natoli con l’accusa di “frazionismo”.
Alle 16,37 del 12 Dicembre 1969, nella Banca nazionale dell’Agricoltura di Milano, esplode una bomba che provoca 17 morti e oltre 100 feriti. Inizia la “Strategia della tensione” con una lunga lista di attentati che insanguineranno il Paese e culmineranno nell’assassinio di Aldo Moro e nella strage della stazione di Bologna il 2 agosto 1980, che provocò 85 morti e 200 feriti. L’evoluzione democratica e progressista del nostro paese, contrastata dalla guerra fredda , ci costerà anni di reazioni brutali, attentati e tratti di guerra civile da parte delle forze reazionarie e conservatrici. Durante la notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970 un gruppo di golpisti guidati da Junio Valerio Borghese, tenta di occupare il Viminale. Ci sarà un contrordine: i fascisti abbandonano il campo ma quella notte scappano tutti. Le sedi dei partiti, le sezioni del Partito Comunista e le centrali sindacali vengono presidiate, spariscono documenti, tessere ed elenchi di iscritti. Ubaldo e Tittino Di Rocco passano la notte in un magazzino di via Lavanga. Al mattino del giorno successivo, rendendosi conto che nulla era accaduto, uscirono dal magazzino ed andarono a cercare il Segretario della Sezione del PCI di Formia. Lo trovarono dietro il bancone della sua latteria, ignaro di quanto era accaduto nella notte trascorsa. Notevole fu l’irritazione di Domenico Matarese che nulla aveva saputo, trascorrendo la notte nella sua abitazione perché nessuno lo aveva avvisato.
Quando mi raccontarono quegli avvenimenti non potei fare a meno di scherzare con Ubaldo e Tittino dicendo loro che avevano scelto di nascondersi in un luogo, il secondo dopo la propria abitazione, nel quale sarebbero andati sicuramente a cercarli. Ma fu brutta quella notte: Tittino mi diceva che sua moglie, da allora, non era stata più bene. All’indomani delle elezioni politiche del 7 maggio 1972, quando il Partito Socialista di Unità Proletaria, il Manifesto ed il Movimento Politico dei Lavoratori ottennero complessivamente 993.155 voti ma non raggiunsero il quorum in alcun collegio, mancando l’elezione di ben 16 deputati, decisi di iscrivermi al Partito Comunista. Avevo votato per Valpreda e un po’ avvertivo la responsabilità di quella oggettiva dispersione di voto. Lo scenario internazionale s’incupiva con il colpo di stato in Cile dell’11 settembre 1973, la guerra del Kippur in ottobre e lo shock petrolifero che ci fece girare con le macchine a targhe alterne. Enrico Berlinguer propose il compromesso storico, un progetto condiviso con Aldo Moro “al fine di dar vita a uno schieramento politico capace di realizzare un programma di profondo risanamento e rinnovamento della società e dello Stato, sulla base di un consenso di massa tanto ampio da poter resistere ai contraccolpi delle forze più conservatrici”. Dunque non si trattava di dar vita al compromesso deteriore di spartire posti e prebende nei governi locali con la Democrazia Cristiana. Non erano poche, all’epoca, le tensioni all’interno della sezione del Partito Comunista di Formia. E non era vero che quelle tensioni scaturissero da personalismi come qualcuno indicava in maniera assai sbrigativa. C’erano due visioni diverse della politica e del Partito. Ubaldo ne proponeva una di alto respiro, connotata da autentico spirito di servizio nei confronti dei cittadini. Sceglieva decisamente la parte dei lavoratori, degli esclusi, tutti, senza discrimine, ai quali andava data la possibilità concreta di contare e di cambiare le proprie condizioni. Si trattava di un punto fermo da perseguire anche a costo di scontare il dissenso all’interno della propria organizzazione politica. Il 16 Luglio 1976, nel saluto a Pietro Ingrao, primo comunista eletto Presidente della Camera dei Deputati, Ubaldo ne richiamava la passione politica, il rigore, l’intelligenza innovativa praticata anche a costo di una solitudine. Era l’assunzione piena della responsabilità del pensare ed agire, in modo chiaro, senza scorciatoie.
Il congresso del PCI di Formia, del 1972, finì in uno scontro durissimo. Quel mattino, in qualche caso, le parole lasciarono il posto alle mani. La rottura fu drammatica e da lì iniziò il distacco dal Partito con il tentativo di rendere possibile un agire politico al di fuori di esso. Seguii Ubaldo e gli altri compagni, anche se non ne ero del tutto convinto, ritenendo invece che fosse più giusto continuare la battaglia all’interno del Partito. D’altra parte mi ritrovavo ad essere appena entrato e già nel dilemma di dover uscire. Rinnovai la tessera alla sezione “Macao” di Roma ma a Formia seguii Ubaldo e quella che lui chiamava “la passionaccia” della politica. Ne ho ancora un vivo ricordo. Alla vigilia delle elezioni del 1976, mi raccontò che una signora di Napoli, allarmatissima, gli aveva riferito che i comunisti avevano minato tutta Napoli, pronti a farla saltare in aria in caso di vittoria ed il sangue di San Gennaro ne aveva confermato l’attendibilità perché non si sarebbe sciolto. A Napoli era già Sindaco Maurizio Valenzi ma nel maggio del 1976 il sangue si sciolse con 8 giorni di ritardo. Quel ritardo veniva interpretato foriero di una sciagura: la probabile vittoria dei comunisti alle elezioni politiche. D’altronde il miracolo che non accade o esce storto si verifica sempre alla vigilia di sciagure. Così elencano a Napoli gli accadimenti causati dal mancato miracolo.
22 epidemie,
11 rivoluzioni,
1 invasione dei turchi,
7 re morti entro l’arco temporale di sessanta giorni,
9 papi morti nell’arco temporale di poche settimane,
4 guerre,
7 alluvioni,
11 eruzioni del Vesuvio,
19 terremoti,
Infine, secondo quella signora: l’avanzata dei comunisti nel 76
Ubaldo ne era allo stesso tempo sconcertato ed inorridito ma poi guardandomi mi disse:” ci sono momenti che manderesti al diavolo la gente che crede a queste sciocchezze, ti verrebbe la voglia del disimpegno ma poi riprende il sopravvento la “passionaccia della politica” e allora ti senti tornare le forze e la voglia di dare battaglia.” Ecco questa affermazione, questa parola “passionaccia” m’è rimasta impressa, ed è la cosa che più mi viene in mente quando ripenso ad Ubaldo ed è proprio in quelle parole che ha centrato il bersaglio, trasmettendo l’esempio della politica di servizio, dell’orgoglio della proprie idee e della necessità di viverle con assoluta convinzione. Purtroppo, ora non è più epoca di “passionaccia politica”, siamo finiti a “Er Batman”, alla Minetti, al “Trota”, all’acquisto delle annate di Diabolik coi soldi pubblici, alla vergogna di chiedere il rimborso di 50 centesimi per l’uso di un cesso, a macchine e gioielli, ad ostriche e champagne: un vero saccheggio di danaro pubblico. E i nostri? I nostri non hanno mangiato le ostriche ma in molti casi hanno condiviso le spartizioni per improbabili attività politiche, venendo meno al sacrosanto dovere di opporsi a tali vergognose ruberie. Siamo finiti dalla politica a cui si dava a quella da cui si prende. E la passionaccia che ti faceva dare alla politica, che impegnava le persone finanche in una scelta di vita, che ti rendeva accettabili discriminazioni e soprusi, che costava soldi delle proprie tasche, che assorbiva tutto o quasi il tempo libero, ebbene, quella passionaccia è finita oppure in briciole ancora esiste, come brace sotto la cenere, pronta a dar favilla nel caso in cui il vento riprenda a soffiare? E’un desiderio? Una vanità? Un’ invenzione esistenziale perché bisogna vivere? La storia insegna che non cadono le ragioni né le condizioni che determinano la necessità della politica. La miseria dei senza lavoro, i popoli in fuga, i barconi e i disperati che affondano negli abissi, le teste mozzate, i “poveri cristi “ condotti alla morte nelle fosse comuni, questo mondo che ci appare lontano in televisione ma poi irrompe nelle nostre case e ci scuote, ci sferza, ci insegue con l’affanno del futuro. Il lavoro, le cure mediche, la casa, non più diritti ma privilegi per alcuni ed angosce per altri. Il ventre sazio immemore di “quel che è stato”, di cui parlava Primo Levi, ora diventa in molti casi drammaticamente digiuno e a questo punto non si ha più scelta: “la politica e la passionaccia” ridiventano una necessità. FC
You must be logged in to post a comment Login